
I turchi lo chiamano kumiz, mentre i mongoli lo chiamano airag e i russi araga, si tratta sempre della stessa bevanda fermentata a base di latte di giumenta. Tradizionalmente consumato dalle popolazioni nomadi, il kumis ha un leggero contenuto alcolico e viene ancora oggi prodotto con metodi artigianali. In tutte queste culture rappresenta molto più di una semplice bevanda: è un simbolo di tradizione, ospitalità e connessione con la vita nomade delle steppe.
Circa cinquemila anni fa, nel territorio che oggi corrisponde al Kazakistan settentrionale, si è sviluppata l’antica cultura Botai. Le prove archeologiche suggeriscono che i cavalli di questa popolazione hanno contribuito al genoma dei cavalli domestici moderni. Infatti, in epoche precedenti il cavallo è sempre stato un animale selvatico cacciato per la carne, ma le ricerche più recenti hanno indicato che questa popolazione è stata la prima ad addomesticarlo (Equus ferus), trasformandolo in un mezzo di trasporto e strumento bellico. Inoltre, sembra che siano stati tra i primi a fermentare il latte di giumenta, ottenendo il kumis. La bevanda si è evoluta nel tempo, diffondendosi tra le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, tra cui i Mongoli, i Kirghisi, i Kazaki e i Turchi. Guerrieri come Gengis Khan e Attila l’Unno, utilizzavano le giumente per la carne, come mezzo di trasporto e alimentavano gli eserciti con il kumis. Nel 1250, il frate Guglielmo di Rubruck, inviato da Luigi IX di Francia, descrisse il kumis come una bevanda leggermente frizzante, simile a un vino acidulo con retrogusto di latte di mandorla. Anche Marco Polo, nel Milione, cita questa bevanda con il nome di chemisi.
La mungitura è un’attività complessa, in Mongolia, ad esempio, il mungitore si inginocchia con un secchio legato al braccio, mentre il puledro, presente accanto alla madre, stimola la discesa del latte. Da metà giugno a inizio ottobre una giumenta può produrre tra i 1000 e i 1200 litri di latte, metà dei quali viene lasciata al puledro. La preparazione del kumis richiede una tecnica particolare: il latte viene agitato in contenitori tradizionali, spesso realizzati in pelle di cavallo o capra, per favorire la fermentazione.
La fermentazione lattica è opera di batteri lattici (per l’acido lattico) e la fermentazione alcolica avviene per azione dei lieviti del genere Saccharomyces (per l’etanolo). Il latte di cavalla, tra tutti quelli degli animali domestici, presenta il più alto contenuto di lattosio (oltre 6 g/l, simile a quello umano). Questo rende il latte facilmente fermentescibile, producendo il kumis con una gradazione alcolica tra l’1% e il 4%. La fermentazione moderna dura dalle 2 alle 5 ore a 27 °C, seguita da una fase a temperatura più bassa. In alcune comunità nomadi, il kumis viene distillato a freddo per ottenere una bevanda più alcolica chiamata araka o arkhi. Le versioni industriali in commercio raramente superano il 2% di alcol e vengono spesso realizzate con una miscela di latte equino e vaccino.
Nelle regioni delle steppe le condizioni climatiche rigide e lo stile di vita nomade rendevano difficile la raccolta e la trasformazione delle piante. Al contrario, le giumente erano una presenza costante durante gli spostamenti stagionali, e il loro latte costituiva una risorsa preziosa. Tuttavia, essendo poco digeribile se consumato fresco a causa dei suoi effetti lassativi, veniva regolarmente fermentato per produrre kumis.
Quindi, non è solo una bevanda, ma un elemento centrale nelle tradizioni e nella cultura delle popolazioni delle steppe asiatiche. Va servito freddo in coppette senza manico dette piyala. In Mongolia e Kirghizistan, ad esempio, è tradizione offrire una ciotola di kumis, anche da latte di cammello, agli ospiti come segno di ospitalità e rispetto all’interno delle yurte o gher (abitazioni mobili dei popoli nomadi dell’Asia).
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