La religione buddista ha avuto un ruolo determinante nella cultura giapponese, con ampi riflessi anche dal punto di vista gastronomico. È risaputo che già nell’anno 675 l’imperatore Tenmu emanò un editto che proibiva il consumo delle carni di diversi animali domestici ed epoche successive ribadirono a più riprese il divieto di uccidere animali per cibo. Tuttavia, queste prescrizioni non implicavano una dieta interamente vegetale per tutti: la popolazione continuava a consumare pesce e frutti di mare in abbondanza, e in alcune circostanze anche carni selvatiche (cinghiale, cervo) erano assunte come “medicina ricostituente” o in occasioni speciali. Il Giappone abbandonò definitivamente le antiche restrizioni alimentari nella seconda metà del XIX secolo per aprirsi ai costumi occidentali.
La cucina Shojin Ryori è, invece, rimasta fedele ai principi più rigorosi della disciplina buddista di compassione e purezza. Il termine shojin significa “devozione”, mentre ryori vuol dire “cucina”: si tratta dunque della “cucina della devozione”, praticata tradizionalmente nei templi dai monaci. Le sue origini in Giappone risalgono al XIII secolo e da allora lo shojin ryori si è perfezionato nei monasteri Zen e Tendai, diventando una cucina vegana altamente raffinata pur nella sua semplicità. L’idea centrale è che il cibo aiuti il percorso verso l’illuminazione nutrendo il corpo in modo sano e compassionevole.
Le regole fondamentali dello shojin ryori riflettono i precetti buddhisti. È assolutamente escluso l’uso di carne, pesce e di qualunque derivato animale, così come aglio, cipolla, erba cipollina e porro. Questa ulteriore restrizione –nota come kinkunshoku (divieto dei cinque ortaggi “pungenti”)– ha lo scopo di evitare quegli aromi intensi che potrebbero disturbare la meditazione.
Tra i piatti emblematici dello hojin ryori , molti sono diventati famosi anche al di fuori dei templi. Un classico antipasto è lo shira-ae, un’insalata di verdure di stagione (ad esempio spinaci, carote, fagiolini) condite con una crema di tofu e semi di sesamo macinati. Spesso viene servito anche il namasu, un piccolo contorno agrodolce a base di daikon e carota tagliati a julienne e marinati in aceto di riso, dal gusto rinfrescante. Immancabile poi una zuppa: tipica è la kenchin-jiru, e consiste in un brodo limpido con verdure miste (radici di loto, bardana gob, carote, patate) e dadini di tofu, il tutto insaporito con dashi vegetale e miso. Un’altra specialità è il goma-dofu, il “tofu di sesamo”: non si tratta di soia, ma di una sorta di budino salato preparato emulsionando a caldo pasta di sesamo bianco e l’amido di kuzu fino a ottenere un panetto dalla consistenza setosa.
Non mancano pietanze dal gusto più deciso come le tempura di verdure fritte con una pastella senza uova, oppure la “cotoletta” di yuba, ovvero la pellicola del latte di soia dal sapore delicato e dalla consistenza piacevolmente tenace. Il tutto è solitamente accompagnato da riso bianco o integrale e da un assortimento di tsukemono, le classiche verdure fermentate che aggiungono note agrodolci e croccanti al pasto.
La sequenza di questi piattini con alimenti semplici, ma estremamente curati, anche nella presentazione, ha contribuito alla definizione dell’elegante cucina giapponese chiamata kaiseki, una delle massime espressioni della gastronomia nipponica.
Il kaiseki ryori è responsabile dell’influenza sotterranea ma decisiva sull’alta cucina globale. Più che un semplice menu degustazione, rappresenta un percorso culinario che rispetta la stagionalità estrema, la successione armonica delle portate e un’estetica raffinata che trasforma ogni piatto in un haiku visivo. Questa logica di narrazione attraverso il cibo ha ispirato generazioni di cuochi internazionali, da Ferran Adrià a René Redzepi, spingendo la ristorazione di lusso verso menu più essenziali, radicati nel territorio e pensati come un racconto scandito in capitoli.
Dietro ogni esperienza di fine dining odierno che propone piatti in sequenza, ingredienti locali nel picco di gusto e presentazioni curate come composizioni poetiche, si avverte l’eredità del kaiseki e del shojin. Non è un caso che molti chef contemporanei citino la cultura giapponese come matrice di una particolare sensibilità gastronomica, dove freschezza, cura dei dettagli e stagionalità si fondono in equilibrio.
Per avvicinarci alla cucina shojin siamo stati accolti al tempio Enryaku-ji, situato sul monte Hiei al confine tra Kyoto e la prefettura di Shiga, fondato nell’anno 788 dal monaco Saicho, capostipite della scuola buddista Tendai. Nei secoli Enryaku-ji ha assunto un ruolo di primo piano nel Paese e viene definito la “culla del Buddismo giapponese”, poiché nei secoli ha formato numerosi monaci destinati a divenire figure chiave di altre scuole buddiste.
Il cuore del complesso del tempio, diviso in tre aree e molteplici edifici, è la sala principale Konpon Chodo, che custodisce una statua del Buddha della Medicina attribuita a Saicho e soprattutto la Fumetsu no Hoto, la “luce inestinguibile del Dharma”: una lampada votiva che, si dice, arda senza interruzione da oltre 1200 anni, alimentata quotidianamente dai monaci a simboleggiare la continuità degli insegnamenti buddhisti.
Enryaku-ji è famoso per la grande tradizione di shojin ryori, ma anche per ospitare alcune delle pratiche ascetiche più estreme del Buddismo giapponese. Una in particolare, è conosciuta come la “pratica delle mille giornate” sul Monte Hiei. Si tratta di un durissimo percorso ascetico in cui i monaci si impegnano a percorrere a piedi lunghe distanze ogni giorno sulle pendici del monte, per mille giorni nell’arco di circa sette anni. Questa pratica di resistenza fisica e mentale è volta a coltivare la determinazione e la consapevolezza assoluta, portando il monaco che la intraprende verso l’illuminazione attraverso la fatica fisica.
Considerando la profonda influenza che il buddismo ha avuto sulla cultura giapponese, verrebbe spontaneo pensare che il vegetarianismo sia molto diffuso in Giappone. In realtà la dieta vegetariana o vegana è praticata da una minoranza piuttosto esigua della popolazione, specie se paragonata all’Italia. Non esistono statistiche ufficiali, ma alla luce di alcuni sondaggi si stima che circa il 6% dei giapponesi escluda animali e pesci dalla propria alimentazione.
In Italia la situazione è ben diversa: il nostro Paese figura ai primi posti in Europa per percentuale di popolazione che adotta diete plant-based. Secondo un rapporto ufficiale Eurispes del 2024, i vegetariani in Italia sono il 7,2% e i vegani un ulteriore 2,3%, per un totale di circa il 9,5% della popolazione che ha scelto di non consumare proteine animali.
Di contro, però, nel nostro Paese si consuma circa il triplo di carne pro capite rispetto al Giappone e la metà del pesce, un dato che pone il Sol Levante ai primi posti tra i veri praticanti della “Dieta Mediterranea”.
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