Se l’Italia trema, dall’altra parte dell’Oceano non si vive più serenamente. In attesa della “stangata” del 30% che dovrebbe colpire i prodotti europei dal primo agosto abbiamo intervistato Dominic Nocerino, uno dei più prestigiosi importatori di vino italiano sul mercato Usa con la sua Vinifera Imports.
Da sinistra: Abby Nocerino, Dominic, la moglie Cindy Nocerino, Dominic Jr.
Buongiorno Dominic. Che aria si respira negli States e nel mondo del vino in particolare in questo periodo?
Non buona. Non stiamo vivendo un grande momento. Provate a fare una passeggiata nel centro di Manhattan. La 5° strada, Madison e Park sono da sempre arterie commerciali importantissime. Per trovare un locale in queste strade di Midtown ci volevano prenotazioni di anni. Oggi sono piene di cartelli “for Rent”. Non è un bel segnale. Il commercio soffre, la ristorazione soffre, e di conseguenza anche il mondo del vino non è in perfetta salute. Diciamo che dalla pandemia in poi, anche a causa dei conflitti, c’è un’economia stagnante. Al di là dei proclami. E le spese salgono…
Andiamo subito al sodo: lei crede che la minaccia delle accise al 30% sia un bluff per intavolare trattative più complesse, o ci sono serie probabilità che alla minaccia segua l’applicazione?
Sarò sincero. Credo che sia più che altro una minaccia per aprire trattative più articolate e complesse. Il Presidente ci ha abituato a queste iniziative che appaiono roboanti all’inizio ma che poi si traducono in trattative più articolate.
E se fosse vero? Cosa accadrebbe?
Viaggiamo con margini ridotti già ora. In questi ultimi anni i prezzi di beni e servizi sono aumentati in maniera esponenziale. Il costo dell’energia elettrica, gli affitti dei locali da adibire a magazzino e così via. Navighiamo sulla linea di galleggiamento, insomma. E parlo per tutto il settore. Un aumento del 5-7% sarebbe un duro colpo ma in qualche modo gestibile. Considerate che abbiamo già accise per il 10%, a queste va aggiunta la svalutazione del dollaro di circa il 15%… Già arrivare ad un altro 10% (quindi 20% in totale) sarebbe un colpo fortissimo per tutto il settore. Con conseguenze disastrose, catastrofiche, che vanno dalla chiusura di molte aziende alla disoccupazione per migliaia e migliaia di addetti. Il nostro sistema è complesso, l’importatore può vendere solo al distributore, e questo vende poi al negoziante o al ristoratore. Ognuno di noi ha spese fortissime e deve applicare dei ricarichi. Sommando tutto questo si capisce perché una bottiglia che all’origine è stata acquistata in Italia a 10 dollari può finire a 90-100 nella carta dei vini di un ristorante.
Forse i ristoratori ricaricano troppo?
Non posso accusarli di questo. Gli affitti nelle città sono alle stelle. Tasse, costi del personale e dell’energia anche. Fanno quello che possono… E questo spiega anche perché è sempre più difficile trovare ristoranti e negozi di proprietà, a gestione familiare. Oggi sono i grandi gruppi a farla da padroni. Quando hai 30/40 attività commerciali riesci ad attuare delle economie di scala che non sono alla portata del piccolo.
Vinifera è un “family business”. Di successo ma a dimensione familiare. Come si naviga in queste acque agitate?
Io ho iniziato nel 1979 a Chicago, solo a metà degli Ottanta sono arrivato a New York, a Ronkonoma per la precisione, dove ho la nostra sede. Quello che ci ha permesso di sopravvivere anche in anni difficili è stata la scelta di diventare “specialisti” dei vini italiani di fascia alta. Il mercato dei vini più economici e commerciali offre dei margini ridottissimi. Per il nostro segmento è diverso. E poi io negli anni ho accumulato un gran numero di bottiglie di pregio che oggi hanno un grande valore e un mercato di appassionati. Il mio lavoro è stato selezionare e conservare perfettamente il prodotto. E acquisire una serie di distributori in 20 stati. Piccolo sì, ma se sei troppo piccolo non sopravvivi. Insomma, oggi abbiamo 120 dipendenti, quasi tutti venditori, e vengo spesso in Italia per selezionarne di nuovi. Il successo di un’azienda è nella professionalità dei dipendenti. E voglio ancora ampliare l’organico. Anni fa ho comprato una bella azienda in Friuli, la Tenuta Sant’Elena a Gradisca d’Isonzo, seguita da mio figlio, Dominic Jr., che dalla laurea in poi collabora con me in azienda. Insomma, siamo un family business…
Torniamo ai dazi. Dobbiamo preoccuparci seriamente?
Lo ripeto. All’80% si risolverà con un piccolo aumento, secondo me. Non si può mettere in ginocchio un intero settore e privare il consumatore di un prodotto che ama. Qui in America la componente italiana della società è importante. Gli italoamericani sono legati alla terra d’origine, consumano orgogliosamente prodotti italiani. E siamo una fetta importante dell’economia di questo paese. Penalizzare l’Italia, o l’Europa in genere, avrebbe delle ricadute politiche pesanti per questa amministrazione.
Ma poi alla fine questi aumenti chi li pagherebbe?
Noi americani. Io come importatore in primis. Certo, contiamo sulla “solidarietà” delle aziende partner. In 47 anni ho costruito un portfolio importante di bellissime aziende che sicuramente ci aiuterebbero a digerire il colpo, con uno sconto extra o con uno sconto merce. Ma sarà dura comunque. In questi casi la solidità dell’azienda e della reputazione contano. E poi alla fine il consumatore finale. Questo porterà comunque ad una contrazione dei consumi.
Chi ci guadagnerebbe da questa mossa? Altri paesi?
Non credo. Italia, Francia, Germania e Spagna sono tutte nella Ue. Sicuramente i vignaioli californiani, ma non certo le aziende top che già oggi faticano con vini che 10 anni fa erano venduti tutti in prenotazione. Considerate che persino Constellation Brands, un gigante della produzione, non vive giorni facili e in questi ultimi due anni ha venduto diverse importanti aziende americane di proprietà. Il Sud America? Non credo. Forse i produttori di birra americani… Comunque, il mercato è fermo da mesi. Molti importatori hanno vuotato i magazzini. Dal Vinitaly in poi questo clima d’incertezza ha frenato le aziende, così molti oggi rischiano di non aver più vino in magazzino da vendere. E questo vale anche per i formaggi e tanti altri beni made in Europe.
Siamo ottimisti, nonostante tutto?
Lo dico sempre anche ai miei ragazzi: nei momenti di crisi si aprono sempre nuove opportunità. Basta lavorare duro e con passione. Io, per esempio, faccio il lavoro di 7/8 persone (ride…), ho 77 anni e voglio lavorare e giocar a pallone con mio nipote per almeno altri 10 anni. Se Dio vuole…
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