Se c’è una cosa a cui quest’anno non assisteremo saranno i giochi di parole per provare a risollevare, a suon di aggettivi ridondanti, una vendemmia non proprio lodevole. Per descrivere l’annata 2025, probabilmente, basterà finalmente un unico epiteto: perfetta (sempre che non ci siano colpi di coda del meteo nelle prossime settimane). A renderla meno perfetta ci penserà, però, tutto il contesto economico. Una beffa non poter esultare per un’annata che ci si aspettava da tempo. Lo sa bene Beppe Caviola, uno dei più conosciuti enologi italiani che, cresciuto nelle Langhe (la sua azienda, Ca’ Viola, si trova a Dogliani) segue come consulente alcune delle cantine più prestigiose dello Stivale.
Lo contattiamo mentre è alle prese con la vendemmia del Dolcetto: soddisfatto ma non per questo meno teso, come ogni bravo attore al momento della prima a teatro («Non ho gli stessi patemi di dieci anni fa, ma è sempre un momento importante»). Il suo sguardo da enologo, ma anche da produttore, passa dall’acino in pianta al vino sullo scaffale con una visione aperta e mai banale.
Allora, possiamo finalmente dire che sarà un’ottima annata, senza essere tacciati di essere troppo retorici?
Sarà senz’altro una bella vendemmia in tutta Italia, grazie soprattutto all’alternanza di periodi caldi e piovosi. Diciamo che chi lavora nel vino parla sempre di escursione termica e acidità, ma quest’anno si sentono davvero. La pianta non è andata in sofferenza e la maturazione è stata ideale: quella che tutti vorremmo. Se si continua così, avremo un’annata dal buono all’ottimo, ma abbiamo bisogno di altre giornate come queste.
Tutt’altra storia rispetto allo scorso anno. C’è un’annata del passato che ricorda la 2025?
Escluderei le ultime: poco convincente la 2024, troppa calda la 2023. Forse vedo caratteristiche simili alla 2021. C’è un equilibrio importante quest’anno. E poi le uve sono molto omogenee, al contrario dell’ultima vendemmia, quando era evidente l’acinellatura.
Sbagliato affermare che è stata una vendemmia facile? Al Sud si temeva la siccità …
Un’annata più facile da gestire con raccolte anticipate quasi dappertutto. La siccità c’è stata ma non troppo, alternata dalle piogge: grazie al transito di tante perturbazioni, non abbiamo riscontrato problemi importanti. Questa alternanza ha portato ad un’annata perfetta con grappoli pieni e di maggior peso.
Quindi il tanto temuto cambiamento climatico non fa più tanta paura?
Spaventa ancora, ma fino ad un certo punto. Negli anni abbiamo capito cosa fare per far adattare la pianta. Funziona come per le persone: se c’è troppo sole bisogna proteggersi in un certo modo. Un tempo si defogliava troppo, oggi, soprattutto al Sud, cerchiamo di proteggere il grappolo, schermandolo con la protezione naturale delle foglie stesse. Così non va incontro a problemi di appassimento. Ho anche fatto delle prove interessanti in Toscana, utilizzando delle reti protettive simili a quelle usate per la grandine. In questo modo, i grappoli maturano lentamente senza correre rischi.
Insomma, questa vendemmia non presenta proprio nessun difetto?
Se proprio vogliamo trovare un neo, parliamo degli spazi. Qui, in Piemonte, abbiamo iniziato la raccolta dal dolcetto, per poi vedere che anche barbera e nebbiolo sono messi bene. In annate come queste, succede che spesso e volentieri devi raccogliere le uve – da quelle precoci a quelle tardive – in un arco di tempo ristretto (meno di un mese e mezzo) e, quindi, obblighi le cantine ad una gestione non facile degli spazi. E questa sovrapposizione, per le cantine di medie e piccole dimensioni, può essere una criticità.
A proposito di spazi, con 40 milioni di ettolitri di vino ancora da smaltire, non c’è preoccupazione per questa nuova annata – seppure ottima – in arrivo?
Altroché. Speriamo di restare sotto i 45 milioni di ettolitri, altrimenti sarà dura tra l’export che non aiuta, i problemi con gli Stati Uniti e il calo generale dei consumi.
Soluzioni?
Senz’altro le rese andranno ridotte, a partire dalle scelte dei Consorzi di tutela. Un percorso che, comunque, aiuta la qualità, perché in questa fase è facile cedere a facili compromessi, quando invece possiamo difenderci solo alzando l’asticella qualitativa.
Ma dal punto di vista stilistico c’è qualcosa che si può fare? Per esempio, intercettare i nuovi gusti attraverso vini meno robusti e corposi rispetto al passato?
Non si può ignorare l’evoluzione del gusto. Parlando di stile, seguo convintamente la strada di vini freschi, eleganti con un’acidità interessante, compatibilmente con il clima che cambia. Per esempio, in Sicilia, con il grillo, ho anticipato la raccolta per ottenere un bianco equilibrato con un grado alcolico ridotto. Annate come questa ti permettono di divertirti e di mettere assieme uve raccolte in momenti diversi con diverse caratteristiche, in modo da ottenere acidità ma poi equilibrare con spessore e volume. Stesso discorso vale per i rossi.
Quindi, di fatto, c’è una precisa richiesta da parte delle aziende di intraprendere una nuova direzione rispetto a solo qualche anno fa?
Io sono dell’avviso che a volte la tradizione – e lo dico da piemontese, dove la tradizione è fondamentale – ci porta a proporre un’idea di vino che forse piaceva 30 anni fa. E questo non credo sia un approccio corretto.
Cosa ne penserebbe il Beppe Caviola di 30 anni fa?
Ammetto che da giovane, negli anni Novanta, era impressionato dai vini dell’epoca. Molti di quei vini ho contribuito a realizzarli, ma oggi mi sento di prendere le distanze da quella tipologia con eccesso di colore, di struttura, di legno.
“Errori di gioventù”, quindi?
Chiamiamoli errori che oggi non rifarei. Ma ora è facile dirlo. All’epoca, abbiamo tutti esagerato perché credevamo che quello fosse il vino del presente e del futuro. Ma lo abbiamo fatto con convinzione e in maniera collettiva. Mi riferisco non solo a enologi e produttori, ma anche al mondo della critica, ai giornalisti, al mercato.
Qual è la cosa che maggiormente rinnega di quei vini?
Quell’opulenza e tutto quel legno esasperato che copriva ciò che, invece, oggi tutti vorremmo esaltare: la personalità del vino e il suo legame con il territorio. Anche le aziende hanno, infatti, capito che il vino deve avere altre caratteristiche, che poi sono in parte confermate dalle richieste dei consumatori, anche di quelli più giovani che nessuno vorrebbe perdere.
Proprio quegli stessi giovani che sembrano preferire soprattutto bianchi e bollicine e che si allontanano dalla nostra tradizione rossista. Che facciamo, convertiamo tutto il vigneto italiano?
Bianchi, rosati e bollicine sono i vini del momento. Sicuramente non dobbiamo snaturare i nostri prodotti, ma alla fine, i conti bisogna farli. E negli ultimi anni, i vini rossi hanno subito una riduzione dei consumi del 15%. Anni fa ho portato avanti dei progetti di bollicine in zone non scontate, come ad esempio le Marche, con risultati sorprendenti. Sicuramente sperimentare serve sempre, poi non è detto che dappertutto si possano fare. Quello che dico io è che se c’è il risultato, se ne può parlare.
In questo contesto c’è ancora spazio per i rossi?
Dipenderà anche da noi. Bisognerà capire cosa possiamo fare per rendere stilisticamente fruibile tutto questo patrimonio che abbiamo in Italia. Al di là del Barolo e dei Brunello, quando parliamo di futuro, penso anche alla possibilità di offrire rossi più freschi, versatili e meno alcolici, magari che si avvicinano anche a certi bianchi. Ci sono molti vitigni autoctoni che si prestano bene a questo cambio di passo.
Facciamo qualche esempio concreto?
Penso ad esempio al dolcetto: spesso bistrattato, si presta benissimo ad un certo tipo di vinificazione con vendemmia differenziate per equilibrare l’alcol. C’è, poi, un altro vitigno di cui mi sono letteralmente innamorato: il nero d’Avola che, considerato per troppo tempo opulento e strutturato, dimostra invece di avere un’ottima acidità e di essere capace di esprimere grande piacevolezza anche servito fresco d’estate. E non è da meno il sangiovese. Penso, infine, ai vini della Valpolicella, in particolare al Classico, che controbilancia le note fruttate a quelle di pepe con il composto rotundone: una complessità con nota speziata fantastica per i nuovi palati. Caratteristiche simili a quelle che si riscontrano nel grignolino: negli anni Novanta, non veniva preso in considerazione per il suo colore scarico, oggi può essere rivalutato. Come vede abbiamo da sperimentare. E soprattutto di sbloccare il mercato. Le risorse ci sono.
Domanda da cui non possiamo esimerci: lei lo farebbe un vino dealcolato?
Spero di non farlo, ma mai dire mai. Non perché ce l’abbia con chi li fa, semplicemente perché appartengo ad un altro mondo. I dealcolati – anche se io parlerei più che altro di bevande – li lascio alle aziende che fanno volumi importanti. Ad ogni modo non mi scandalizzo, perché credo nel progresso e mi piace essere sempre aggiornato. Tant’è che ho sperimentato il processo per ottenere vini meno alcolici.
Parliamo, quindi, di una semi dealcolazione, i cosiddetti vini low alcol.
Se si dealcola in un certo modo, per abbassare la gradazione senza arrivare ad eliminare totalmente l’alcol, perché no? Dealcolare totalmente non è il mio mondo. Ragionare se un vino è troppo alcolico è tutt’altra considerazione. Capita che in certe annate calde si raggiunga un grado zuccherino esagerato. Così ho fatto delle prove per abbassare la gradazione di due gradi, da 16 a 14. Ecco, i risultati sono stati positivi dal punto di vista sensoriale, quindi credo possa essere una strada percorribile. Personalmente, sono contento che la ricerca vada avanti, a patto che la tecnica non sia depauperante. C’è un’evoluzione di tutto, del vino come del cibo.
Piwi, favorevole o contrario?
Curioso. Non ho ancora avuto modo di sperimentare, ma a vendemmia conclusa cercherò di approfondire perché mi sembra una strada interessante. Essere troppo conservatori non aiuta a progredire. Prima di giudicare bisogna provare e poi fare le dovute considerazioni. Ricerca e innovazione sono fondamentali: senza il vino non avrebbe raggiunto certi livelli.
E se le dico vino naturale cosa risponde?
Ognuno ha il suo storytelling, ma alla fine quel vino il consumatore se lo deve bere. Se appena metto il naso dentro al calice sento la bret o la volatile alta e mi viene spiegato che è una caratteristica, rispondo che è un difetto. L’uomo ha la responsabilità di trasformare l’uva in vino e deve farlo nel mondo corretto, chiamando i difetti con il loro nome. Ma questa è la mia visione, alla fin fine poi il mondo è bello perché è vario.
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