
Che si chiami torta o pizza al formaggio, oppure in qualsiasi altro modo, a seconda del nome con cui si è affermata a livello locale, questa specialità del Centro Italia non ha mai avuto tanto successo quanto oggi. Tolta la colomba, che beneficia del marketing opprimente dell’industria dolciaria, sembra aver scalzato gli altri prodotti da forno della tradizione pasquale. O quanto meno, inizia a godere dello stesso fascino del casatiello e delle altre preparazioni salate che guarniscono le tavolate durante la festa della Resurrezione. La crescia da tempo si è sganciata dalla dimensione prettamente religiosa (e monacale) con cui è diffusa nei secoli e non si prepara più solo nelle case. Praticamente, pure a Roma, non c’è forno che sotto le feste non ne abbia in vendita qualcuna, oltre al fatto che resta in molte regioni un PAT, prodotto agroalimentare tradizionale dal marchio ministeriale. Insomma, non è più il “cugino sfigato” che bisogna portarsi dietro con gli amici per non far arrabbiare i parenti. E il bello è che ora viene sempre meno relegata alla Pasqua. In Umbria si fa anche a Natale. Ma c’è chi la produce tutto l’anno cercando di destagionalizzarla, liberandola dal ruolo di semplice comparsa.
Se la versione dolce oggi è rimasta confinata a specialità pasquale, quella salata e pepata, detta “brusca”, no. Una tendenza riscontrata pure da Tommaso Lucchetti, docente di storia e cultura dell’alimentazione dell’Università degli studi di Parma: «Stiamo assistendo a un progressivo sgretolamento del classico calendario gastronomico conviviale nelle sue differenze e peculiarità. Specialmente quello naturale, come da sempre, con ortaggi e frutta fuori stagione. Ormai, se un prodotto ci piace, proviamo a mangiarlo sempre. Un fornaio mi ha raccontato che si è ritrovato a fare le fave dei morti ad agosto perché la gente le richiede. Nelle Marche, in effetti, anche la pizza al formaggio, apprezzata dai turisti, adesso si trova ovunque, tutto l’anno. Addirittura, c’è gente che la serve come antipasto natalizio». E le ragioni sarebbero di varia natura: «La divulgazione delle eccellenze gastronomiche locali è diventata un modo per raccontare il territorio. Ci sono dinamiche commerciali e di valorizzazione turistica che “sradicano” un prodotto dalla dimensione temporale e rituale che gli appartiene, con il fine di raccontare il territorio nelle sue tipicità specifiche».
Ciononostante, secondo lo studioso, la pizza «rimane culturalmente ancorata al rito della colazione di Pasqua: si consideri che il formaggio usato costituisce una risorsa tardo-primaverile e dunque allude simbolicamente al periodo di rinascita; mentre la lievitazione, per la Pasqua cristiana, ha una valenza identitaria molto forte, in quanto la distingue da quella ebraica, che prevede gli azzimi, pani non lievitati. Appunto, il termine crescia, comune ai dialetti del Centro-Nord marchigiano, dà l’idea di un impasto che tende a crescere». La sua portata liturgica poi è storicamente comprovata: «Diversi studi riportano che alcune collettività femminili in Umbria si isolavano in un altro ambiente o casa per lavorare due giorni di fila alla preparazione. Avveniva durante la settimana santa — in genere dal giovedì al sabato — con tempi di lievitazione molto accurati, quasi sacrali, e precise cognizioni maturate con l’esperienza nell’accensione e gestione dei forni a legna nelle temperature ottimali. Se ne facevano tantissime, destinate all’autoconsumo o a essere regalate. Così, presso le comunità rurali esistevano numerose ricette di recupero delle cresce avanzate. Per il Pan bollito, si disponevano le fette rimaste, diventate rafferme, a cuocere in forno con del brodo ed alternate a strati di verdure, uova e formaggio. Una sorta di ribollita».
@tommasolucchetti (con un libro tra le mani)
Poiché la ricetta documentata più antica è tra le carte manoscritte di una comunità religiosa si tende a stabilire questa matrice, ma Lucchetti, che pure ha trascritto la fonte citata, è più cauto: «Al momento, il documento più antico che abbiamo è da individuare fra le carte del monastero di Serra de’ Conti, ma era talmente comune fra le persone che resta difficile pensare che, come altre pietanze o dolci, sia nata nei monasteri e poi filtrata lentamente verso l’esterno o viceversa. Si tratta per lo più di una preparazione di campagna. Si utilizzava di tutto per mettere la pasta a lievitare e cuocere. Alla bisogna, pure le vecchie latte di pomodoro. Le pizze venivano cotte nei forni di campagna; nelle città e nei piccoli paesi invece le famiglie le portavano al forno di comunità. Da saporito companatico, un perfetto abbinamento con uova sode, salumi e coratella d’agnello, la crescia non poteva mai mancare a Pasqua, nei giorni di pasquetta e, quando avanzava, perfino in quelli dell’Ascensione, della Pentecoste e del Corpus Domini. Un dono nello scambio rituale tra famiglie, parenti o vicini di casa. Nelle Marche (qui la nostra degustazione), sin dai tempi remoti, favoriva l’assaggio e il confronto delle pizze sulla più riuscita e appetitosa. Già da mezzo secolo le vergare, ormai avvezze alla frequenza dei negozi più riforniti, discutevano sull’impiego di un formaggio piuttosto che di un altro; già si adoperava l’emmenthal, ritenuto adatto per la consistenza, mentre invece il ricettario Il cuoco delle Marche, pubblicato nel 1864 a Loreto, raccomandava l’impiego di cacio “nostrale”».
Francesca Casci Ceccacci @pandefra
Ci sono artigiane come Francesca Casci Ceccacci, titolare del panificio Pandefrà a Senigallia, che hanno un debole per questo lievitato super formaggioso. Tanto amato dalla panificatrice da dedicarvi una linea di produzione che prescinda dalle festività, pronta a completare la proposta da ottobre a maggio. Altro che pizza pasquale. Qui, è una vera protagonista dell’assortimento quasi per tutto l’anno, intera o farcita nei modi più vari, e servita da tramezzino. Come abbiamo scritto anni fa, l’idea della marchigiana doc sarebbe quella di contribuire a destagionalizzare il prodotto. Proporlo anche nei mesi successivi, sulla scia di quanto viene fatto sul fronte panettone. Tanto è vero che, per chi non potesse raggiungere la costa adriatica della provincia di Ancona, si può sempre acquistare sullo shop online, senza il tipico timore di essere fuori tempo massimo per ordinarla.
La panettiera, premiata dalla nostra guida pane con il massimo riconoscimento, crede molto nella sua valorizzazione. Come dimostra il contest sulle migliori pizze al formaggio casalinghe da lei organizzato poche settimane fa. Ceccacci, alla fine della competizione, ha riassunto in poche parole il profondo legame con la tipicità e quanto questa rappresenti un territorio, il suo, per quanto sia destinata ad affermarsi altrove: «vederla qua nelle varie interpretazioni casalinghe, mi fa pensare a quanto sia corretto e giusto portare avanti le tradizioni, anche nelle loro variazioni. Occorre fare in modo che la tradizione portata avanti evolva. Per farlo, deve essere trasferita. Siamo quindi sulla strada giusta per portare questo prodotto fuori dalle Marche. Noi sappiamo quanto è buono e quanto possa rappresentarci».
@riccardorinaldi
Le torte al formaggio però non sono tutte uguali. E ogni famiglia tramanda la sua, custodendone la ricetta e i suoi segreti con grande orgoglio. L’approccio alla produzione può cambiare di regione in regione, se non a distanza di pochi chilometri. O da una casa all’altra, salendo semplicemente le scale del proprio appartamento. Con ciò, quello che ci è sembrato evidente, è che la differenza maggiore tra una pizza e l’altra si riscontra fra chi offre una declinazione abbastanza classica, fedele alla “tradizione”, e chi la sforna partendo da una visione più contemporanea. Così, nel primo caso si ha un impasto più pesante, dalla trama fitta e compatta, decisamente ricca in grassi, considerata pure la presenza dello strutto e, nella maggior parte dei casi, l’assenza di tecniche avanzate di lievitazione e cottura. Nelle case umbre poi pare che il numero di uova impiegate costituisca un parametro di valore: più ce ne sono e più è buona la pizza. Tipologia che si contraddistingue per la propria foggia rustica. Eppure, per l’assaggio che risveglia ogni lieto ricordo d’infanzia, riesce a fare ancora molti proseliti.
Nei panifici di moderna concezione si trovano invece produzioni più sofisticate, per sviluppo e scelta degli ingredienti, con lo scopo di conciliare gusto, leggerezza e digeribilità. Ecco che al lievito di birra si aggiunge il lievito madre vivo, in grado di costruire una maglia glutinica più ariosa e alveolata, sintomo di una lievitazione compiuta e ricercata. Mentre al grasso di maiale — lo strutto — si preferisce quello derivante dal latte vaccino, il burro. Magari sostituito o integrato da una percentuale di olio Evo. Ne viene fuori una fetta tendenzialmente più soffice e umida, a volte arricchita da parmigiano e non grana (in aggiunta al pecorino), con pezzi di caciotta al posto dell’emmenthal. Quasi a riprodurre un panettone “gastronomico”, territoriale e dai tratti agricoli, meno eleganti del lievitato natalizio. Composizione e fattura che peraltro possono comportare un prezzo più elevato. Certo, qualcuno potrebbe obiettare dicendo che così si finisce con lo snaturare la ricetta, facendone perdere l’identità. Restano lavorazioni diverse, figlie di filosofie differenti, senza che una sia da ritenere migliore rispetto all’altra. Una sorta di scontro-incontro fra passato e presente, memoria e innovazione. Con alcune che contengono pepe, peperoncino o additivi, mentre altre no. Ciò non toglie che possano esservi elementi in comune, dal tipo di scadenza — la shelf life — fino al fatto che entrambe incorporino pezzi grossi di formaggio locale. L’importante è che siano appaganti e sprigionino un complesso aromatico irresistibile. Chiaramente, non mancano varianti ibride, di incontro fra i due stilemi. E voi di quale partito siete?
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