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L'alta ristorazione conquista spazio negli aeroporti internazionali mentre l’Italia fa fatica

Il viaggio inizia a tavola: luxury Lounge e tavole d’autore, l’esperienza del viaggio comincia in aeroporto. Ecco dove e come

  • 22 Luglio, 2025

Per decenni l’idea di mangiare in aeroporto evocava un’immagine triste: panini preconfezionati, fast food senza personalità, bar caotici. Poi uno chef come Heinz Beck sdoganò la sua esperienza di alta cucina portando a Fiumicino, l’aeroporto internazionale di Roma, Attimi: un’avventura durata poco, però. Ma che a livello globale comincia a essere terreno di investimenti e proposte nella ristorazione di lusso legata al viaggio. Senza dimenticare, comunque, che ormai spesso anche comprare un panino in aeroporto è un lusso!

Oggi, infatti, i terminal delle grandi città globali stanno riscrivendo il concetto di ristorazione in viaggio, puntando a trasformarsi in vere destinazioni gourmet. Chef stellati, menu creativi e lounge di lusso offrono un’esperienza che rende l’attesa parte integrante del viaggio stesso.
A Londra, Parigi o Singapore, la firma di uno chef è garanzia di qualità e prestigio. In Italia, patria della grande cucina, i tentativi di portare l’alta gastronomia negli scali sono stati invece episodici e, nella maggior parte dei casi, non sono durati. Anche se qualche bella sosta è anche a pochi minuti dallo scalo di Fiumicino.

Lounge esclusive: lusso in volo

Negli Stati Uniti, le Centurion Lounge di American Express hanno introdotto dal 2025 il progetto Culinary Collective: quindici lounge che ospitano a rotazione menu firmati da chef celebri come Kwame Onwuachi Tatiana in New York City), Mashama Bailey (The Grey in Savannah), Michael Solomonov (Zahav in Philadelphia) e Sarah Grueneberg (Monteverde Restaurant & Pastificio in Chicago9, accompagnati da cocktail creativi ideati da Harrison Ginsberg, bar director di Overstory a New York. Non più un semplice spazio d’attesa, ma un ristorante di livello racchiuso in un lounge.

Anche in Europa il fenomeno è ben consolidato. La La Première Lounge di Air France al Charles de Gaulle di Parigi è curata da Alain Ducasse: qui l’alta cucina francese incontra un servizio impeccabile, vini rari e piatti stagionali che fanno dimenticare di essere in un terminal.
A New York, nel JFK Terminal 8, la Chelsea Lounge (nata dalla collaborazione tra American Airlines e British Airways) propone piatti curati dalla James Beard Foundation e un esclusivo champagne bar. Poco distante, il Delta One Lounge offre un’esperienza brasserie, mentre la lounge Capital One al Terminal 4 celebra la scena gastronomica newyorkese con formaggi selezionati e dessert artigianali.

Ristoranti firmati: dal gate al piatto

Londra è un caso emblematico. Al Terminal 5 di Heathrow, Gordon Ramsay ha aperto Plane Food, un ristorante che propone caviale, tartare e vellutate gourmet anche in modalità “Plane Fast” per chi ha solo 25 minuti: esperienza che riprende i pranzi gourmet “a tempo” degli Attimi di Beck.
Sempre a Heathrow, al Terminal 2, c’è The Perfectionists’ Café di Heston Blumenthal, che porta in aeroporto la sua visione molecolare e multisensoriale, con pizze cotte in 90 secondi e gelati preparati con tecniche d’avanguardia. Anche qui l’intuizione legata al tempo, in un ambiente dedicato al volo e al viaggio, torno in primo piano.

A Parigi, il Charles de Gaulle Terminal 2E ospita I Love Paris di Guy Martin, bistrot elegante che celebra la cucina francese contemporanea con una carta dei vini degna di un ristorante cittadino. A Ginevra, nel Terminal 1, Altitude è firmato dai due stelle Michelin Gilles Dupont e Thomas Byrne, mentre a Singapore, nel Terminal 3 del Changi Airport, Wolfgang Puck ha aperto The Kitchen, raffinata celebrazione della cucina internazionale. Monaco di Baviera, infine, ospita il Mountain Hub Gourmet, l’unico ristorante stellato all’interno di un aeroporto, con menù alpini d’autore.
Queste realtà dimostrano che l’alta ristorazione può funzionare in aeroporto se supportata da strategie solide, concessioni a lungo termine e un pubblico globale disposto a pagare per un’esperienza speciale.

Italia: tentativi ambiziosi e brusche frenate

E in Italia? Qui il panorama è più frammentato e fragile. Roma Fiumicino aveva ospitato Attimi di Heinz Beck, un format pensato per il viaggiatore con poco tempo: menu degustazione in 30 o 60 minuti, piatti eleganti come ceviche e tagliolini al ragù di astice, e un ambiente raffinato. Dopo qualche anno, però, il ristorante ha chiuso, lasciando spazio a una proposta più tradizionale fatta di pizzerie, wine bar e catene, curate ma senza firme stellate.

A Milano Linate, lo chef Michelangelo Citino aveva inaugurato Michelangelo Restaurant & More, premiato come “Best Airport Chef” ai FAB Awards 2019. Ma dopo la pandemia il locale è stato ridimensionato a *Michelangelo Bistrò & More*, meno stellato e più informale.
Ci ha provato Malpensa a mantenere un tocco gourmet con il Davide Oldani Café, situato nella “piazza del lusso” del Terminal 1. Qui si trovano panini gourmet, brioche salate e dolci d’autore, ma le recensioni sono contrastanti: molti viaggiatori lamentano prezzi alti e un servizio poco all’altezza delle aspettative legate al nome dello chef. Il risultato? Oggi nessuno degli aeroporti italiani offre un’esperienza stabile paragonabile a quelle internazionali.

Perché i modelli italiani faticano

Il confronto con Londra, Parigi o Singapore è netto. Lì i ristoranti firmati dagli chef sono diventati veri simboli dello scalo e sembrano ormai sempre più radicati. In Italia, invece, i progetti sono stati episodici e non hanno trovato continuità.

Le ragioni sono diverse:
1 . Costi di gestione e concessioni elevate, che rendono difficile sostenere formati gourmet a lungo termine.
2 . Flussi passeggeri meno omogenei rispetto a hub globali come Heathrow o Changi, in particolare nella fascia luxury e business.
3 . Mancanza di strategie integrate tra aeroporti, chef e brand per garantire visibilità, marketing e ritorno economico.

All’estero, invece, partnership e comunicazione sono strutturati: Plane Food di Ramsay a Heathrow è attivo dal 2008, il bistrot di Guy Martin al CDG è ormai un’istituzione, e a Singapore i ristoranti di Wolfgang Puck fanno parte della narrazione di Changi come “miglior aeroporto del mondo”.

Dal “fast” al “fine”: una trasformazione culturale

Il modello internazionale dimostra che la ristorazione aeroportuale può passare da fast a fine in modo stabile: lounge gourmet, chef stellati, format innovativi che trasformano l’attesa in esperienza. In Italia, salvo tentativi come Citino a Linate o Beck a Fiumicino, l’equilibrio tra prestigio e sostenibilità non è stato ancora trovato.
Ciò lascia un paradosso: il Paese del buon cibo non è riuscito a trasformare i propri aeroporti in vetrine gastronomiche permanenti, mentre altre nazioni hanno colto questa opportunità per rafforzare la propria immagine e generare valore.

Quale futuro per gli scali italiani?

C’è ancora spazio per ripensare il ruolo dell’alta cucina nei nostri scali. Bologna, pur senza un Bottura in aeroporto (anche se molti siti di viaggio citano la sua Osteria Francescana come sosta essendo nella “vicina” Modena) dimostra che il territorio emiliano potrebbe esprimere grandi potenzialità se ci fosse un progetto integrato. Servirebbero concessioni più flessibili, sinergie con brand e istituzioni, e una narrazione che leghi il viaggio al territorio.
In un mondo in cui la scelta di un volo passa anche dall’esperienza a terra, il cibo è diventato parte del viaggio stesso, un biglietto da visita che anticipa la cultura della destinazione. Londra, Parigi e Singapore lo hanno capito da tempo. L’Italia, uno dei luoghi della cucina d’autore, deve ancora trovare la chiave per trasformare i suoi aeroporti in una passerella all’altezza della propria tradizione. Anche se, avendo già percorso questa strada, potrebbe di nuovo tornare a seguire l’onda della tendenza che vede appunto investimento cospicui nel luxury food in viaggio.

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