Un ristorante, un nome. Quello di Vittorio, un ragazzo che sapeva sognare, con intuizioni degne di un visionario e quel pizzico di pragmatismo che non guasta. Trasforma un bar di Bergamo in una fucina di idee: club sandwich speciali e punte di petto farcite, caramellate nel forno di casa, poi tagliate al bancone davanti ai clienti.
Prende in gestione una piccola osteria sull’orlo del lastrico, cui riesce a dar smalto convertendola in un vero e proprio locale da sei vetrine. Soprattutto, inaugura un ristoro di provincia che insegna ai bergamaschi a “mangiare” il pesce, ingrediente fino a quel momento ignorato. Tutte cose che adesso sembrano scontate, forse anche banali, ma che nel secondo dopoguerra hanno rappresentato assolute novità. Ingegno dal quale è nata una fortuna, così come il riconoscimento della stella Michelin, eredità presto raccolta dai figli.
Eppure, per il fondatore del Da Vittorio, la strada per arrivare alla consacrazione e all’impero attuale è stata lunga e impervia: da piccolo rimane orfano del padre dopo un bombardamento, per doversi poi confrontare con la prematura scomparsa del fratello più grande, colpito dal tifo; e pure nel momento di ascesa della celebre insegna di Brusaporto — a metà degli anni Settanta — si trova costretto a superare i danni di un incendio divampato dalla cantina. Una storia di abnegazione, che si fa ancor più sorprendente, se si pensa che è partito senza avere nulla fra le mani.
Oggi i fratelli Cerea sono attori rilevanti del sistema gastronomico italiano. A dire il vero, costituiscono una vera e propria catena di montaggio che eccelle in ogni segmento del settore: dai ristoranti Da Vittorio alle formule più casual DaV, inclusa quella in partnership con Louis Vuitton, passando per il catering e l’hôtellerie, fino alla produzione di grandi lievitati.
Rossella, Francesco, Roberto ed Enrico Cerea ne sanno davvero una più del diavolo, come dimostra la loro capacità di rinnovarsi ampliando il proprio business e know-how attraverso nuovi progetti. Tra chi gestisce, chi sta in sala, chi cucina, sono volti di riferimento dell’accoglienza. Il fiore all’occhiello dell’attività è senza dubbio il pluripremiato fine dining di Brusaporto, lì dove è cominciata l’avventura più gratificante della famiglia e la loro scalata al successo.
Bruna e Vittorio Cerea
Quasi sessant’anni e non sentirli. Un luogo di storia e tradizione familiare che raccoglie premi e riconoscimenti da tutto il mondo. La sua cucina ora è cambiata, si è evoluta, con i paccheri “al pomodoro” diventati un piatto firma della casa. Ma il Da Vittorio è nato in realtà come ristorante di pesce, il primo del Bergamasco, in un periodo in cui la carne rappresentava la proposta principale e le pescherie trattavano solo il pescato di lago; addirittura, «in provincia» — racconta Chicco Cerea — «il pesce non sapevano neanche cosa fosse: non lo mangiavano. Non avevano nemmeno idea di come si potesse preparare».
Allora le comunità locali mostravano una mentalità abbastanza chiusa, poco aperta al cambiamento o incline alle novità. Contesto che mette a dura prova Vittorio Cerea e la moglie Bruna, desiderosi di offrire un’alternativa ai carrelli di bollito che si trovavano in molti locali. Per questo, inizialmente fanno i conti con il ristorante praticamente vuoto, a differenza di quello pieno degli altri. Una situazione particolarmente complicata che li stava portando al fallimento, a dover considerare di chiudere tutto.
Paccheri alla vittorio @davittorioristorante
Di lì a poco però la tenacia dei Cerea viene premiata, così come la convinzione che il percorso marinaro fosse quello giusto. In un attimo la “testardaggine” di Vittorio si tramuta così in una brillante intuizione, avuta in uno dei vari tragitti di ritorno da Venezia, dove era andato a trovare la zia. Come adesso sottolinea orgogliosamente Enrico: «Lui ci credeva. D’altronde, è sempre stato un testone. Ha tenuto duro ed è andato avanti con le proprie idee fino a quando queste non gli hanno dato ragione».
Una scommessa vinta, visto che piano piano il padre acquisisce la fiducia della piazza, di una classe borghese in ascesa, potendo contare pure su una filiera d’eccezione: un ex meccanico siciliano che facendo avanti e indietro dal mercato di Milano per la pescheria della compagna finiva con il rivendergli la maggior parte delle specie ittiche rimaste invendute.
@davittorioristorante
A sentire i figli Rossella e Chicco, «un innovatore fuori dagli schemi, un professionista di grande sensibilità palatale proiettato all’avanguardia». Certamente, sapeva anticipare le tendenze culinarie in una fase storica in cui gli stimoli esterni non erano tanti quanti quelli contemporanei. Mette in mostra la sua creatività nel Bar Orobica, un’attività inaugurata insieme ai fratelli con i soldi guadagnati in Svizzera e che gli permette di conoscere Bruna, figlia del fruttivendolo da cui si riforniva, conquistata a suon di cappuccini e brioche mattutini. Qui, fra tagli di carne arrostiti e bocconi originali, incentiva gli avventori a bere e quindi spendere.
Capacità e fiuto per gli affari che spingono i fratelli soci, ciascuno in difficoltà nel sostenere la propria famiglia, a convincerlo nell’intraprendere un percorso autonomo. Motivo per cui si impegna in un altro progetto, affittando assieme alla moglie un piccolo buchetto liberato da un’osteria che arrancava.
Era un uomo di acuta lungimiranza, la stessa che gli consente nel 1996 di individuare la Cantalupa a Brusaporto come nuova location per espandersi con una formula alberghiera, alla ricerca di uno spazio più grande, da acquistare a un prezzo più conveniente rispetto all’affitto asfissiante del centro di Bergamo. Più tardi, con pari visione, manderà Chicco a fare catering nelle case dei privati pensando che sia la mossa migliore per farsi una reputazione.
Al di là dell’esperienza in macelleria, Vittorio impara a fare le cose strada facendo. I genitori non erano ristoratori né commercianti. Origini che Chicco definisce «pop». Tant’è che durante la guerra si ritrova a racimolare un po’ di legna in giro per riscaldare il focolare domestico, oppure a fare la fila con gli americani per una gavetta che potesse sfamare pure i fratelli più piccoli. Diviene un self made man solo dopo essersi lasciato alle spalle le disgrazie familiari che avevano fatto sprofondare la madre in una profonda crisi depressiva. Una resilienza che lo aiuta a non perdersi per strada; anzi, in tandem con lo spirito intraprendente, lo trascina in mezzo ai grandi nel 1978, anno in cui viene conferita la prima stella Michelin al Da Vittorio.
Francesco, Roberto, Enrico (detto “Chicco”), Bruna e Rossella @davittorioristorante
Nei figli scorre una simile ambizione, la voglia di rimboccarsi le maniche e migliorarsi, consapevoli del punto di partenza. D’altra parte, il Dna è lo stesso. Come la filosofia del ristorante, che fa leva sui principi cardine di sempre, trasmessi dai genitori: qualità, costanza e coerenza. Insomma, serve serietà, quella mostrata sul campo ogni giorno da papà Vittorio. Allo stesso modo, si porta avanti la tradizione marinara che ha reso grande l’insegna, con forniture da nord a sud dello Stivale, alcune allacciate proprio dal padre. Ecco che, tra una quaglia e una cotoletta a orecchia d’elefante, sfila in sala un meraviglioso branzino.
Rimane dunque in carta il menu degustazione di 8 portate a base di pesce e crostacei. Anche perché il Da Vittorio deve tanto alla vecchia impronta ittica, un unicum prima dell’era globalizzata, considerata la distanza che separa Bergamo dal mare. Come deve molto alla città che, nonostante qualche titubanza iniziale, ha sostenuto a lungo e con fiducia la “causa” dei Cerea.
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