Sono milioni i turisti che ogni anno arrivano nelle città italiane animati dal desiderio di scoprire arte, storia e sapori. Eppure, ciò che viene decantato da influencer e guide si sta lentamente trasformando in un incubo per chi quei posti li vive ogni giorno. Una realtà di folle sempre più numerose e distratte, prezzi impazziti e quartieri svuotati dalla loro vita autentica, che rischia di ridurre i centri storici in consumate cartoline senz’anima. È il caso di Napoli, definita da un recente reportage di POLITICO EU «un centro commerciale a cielo aperto, ridotto a un parco giochi popolato da turisti di passaggio». Ma sotto i riflettori dei media internazionali ci sono anche Venezia e Roma, insieme alla Liguria. Mete simbolo del “sogno italiano”, oggi minacciate dallo stesso identico nemico: il turismo di massa e la gentrificazione. Anche in fatto di cibo.
Nel capoluogo partenopeo basta una passeggiata su Via dei Tribunali per percepire il peso di visitatori sprovveduti. A Vico Fico al Purgatorio la folla si ammassa per accarezzare il naso di Pulcinella, attrazione diventata virale sui social ma priva di storia. Una tradizione inventata espressamente per il turismo che incarna alla perfezione un consumo vuoto, con vie ridotte a cornici per scatti istantanei. «Il centro storico di Napoli è morto. Quelle strade non sono più quartieri. Non ci sono più napoletani, non c’è più vita vera» denuncia alla testata americana il sociologo e attivista Francesco Calicchia, che vive e lavora nel quartiere popolare Sanità.
Sì, perché dietro ai numeri record di presenze, si nasconde un’emergenza sociale. I bassi dei rioni popolari, un tempo vivi e rumorosi, sono ora stati sostituiti da negozi di souvenir e un Bed&Breakfast ogni tre appartamenti. Una dinamica che ha spinto ai margini i residenti di lunga data, tra salti di affitto insostenibili e sfratti improvvisi per inseguire il business delle locazioni brevi. Così il paradosso è servito. L’overtourism sta svuotando il tessuto della città, ovvero ciò che la rendeva attraente. E, sebbene sia stato presentato spesso come fonte di denaro e posti di lavoro per tutti, finisce per arricchire soprattutto grandi proprietari o società con decine di immobili, come raccontato dagli attivisti.
L’allarme non riguarda però solo gli alloggi. L’impatto del turismo si estende infatti ben oltre, coinvolgendo la dimensione culturale delle città, compresa quella gastronomica. Non è un mistero che i visitatori in vacanza in Italia interessati esclusivamente al cibo siano sempre di più. Limonata a cosce aperte e pizza fritta al posto del Cristo Velato, ciccheti e spritz nei bacari piuttosto che Palazzo Ducale. Ovunque, da Venezia a Napoli, le librerie lasciano posto a book-osterie, mentre le botteghe storiche chiudono sostituite da catene di pizzerie e locali simili tra loro. Un immenso buffet a cielo aperto, emblema di una gentrificazione in stile gourmet. Trattasi di foodification, termine nato a Brooklyn nel 2010 per indicare il trend dei giovani imprenditori che aprivano wine bar dove stuzzicare. O per meglio dire neofoodification, con pesi massimi della ristorazione che stanno progressivamente soppiantando le piccole realtà di quartiere. Un fenomeno che sta trasformando radicalmente l’identità dei luoghi e che racconta molto del processo che sta rendendo i quartieri delle città teatri dominati da bar, friggitorie, paninerie e trattorie tutte uguali.
Il motivo è semplice. Come sottolineato da un articolo di d – La Repubblica ripreso dal settimanale francese Courrier International, oggi il turismo culinario è sempre più un consumo veloce. Un’esperienza mordi e fuggi che va oltre la gastronomia, tra file chilometriche, focacce mangiate sui marciapiedi – mangiare per terra può costare 200 euro di multa a Venezia e fino a 500 a Portofino a detta di Travel + Leisure Italia – e cartacce buttate in strada. La cucina, da cultura condivisa, si è così trasforma irrimediabilmente in un appuntamento rapido, perdendo il suo ruolo identitario. L’ennesimo segnale di come le città rischino di perdere le proprie radici culturali sotto il peso di una nuova forma di turistificazione. Il rischio reale, per gli osservatori internazionali, c’è. Senza un’attenta regolamentazione e una politica inclusiva, le città italiane potrebbero perdere quel patrimonio di tradizioni, sapori e relazioni umane che rappresentano il vero cuore della loro ricchezza. Quello che resta è un’immagine costruita per un consumo superficiale, che a lungo termine impoverisce tanto chi visita quanto chi vive il territorio.
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