«Ancora oggi i fornitori chiedono di parlare con mio marito o con mio padre perché una donna non capisce niente». Francesca Ottelli, imprenditrice agricola che da dieci anni gestisce la propria azienda nella bergamasca, ha perso il conto di quante volte le è successo di essere discriminata perché donna. In un video pubblicato su Instagram, la giovane agricoltrice ha denunciato una mentalità che nel settore primario sembra ferma agli anni Cinquanta, raccogliendo commenti di solidarietà da chi si riconosce in questa frustrazione quotidiana.
Non conta che sia lei a seguire le nascite in stalla, fare le scorte del fieno e conoscere metro per metro tutti i terreni. Agli occhi di molti, una donna che fa l’agricoltore nel 2025 è ancora un ossimoro. O peggio, una «agri-influencer mantenuta», come le è capitato di sentirsi dire quando ha iniziato a raccontare il suo lavoro sui social. Perché se una donna ha successo in agricoltura, deve per forza essere una facciata e non una vera professionista, come se la produttività dei campi dipendesse dal sesso di chi li coltiva.
Del resto il settore è ancora profondamente maschile, basta guardare gli ultimi dati Istat. Stando al Settimo Censimento Generale dell’Agricoltura del 2025 solo il 31,5% delle aziende agricole italiane è condotto da donne, una percentuale significativa ma che racconta di un settore dove le donne restano ancora minoranza. Nel comparto agrituristico la presenza femminile sale al 34%, segno che l’innovazione e la diversificazione trovano terreno più fertile tra le imprenditrici. Una crescita che non, però, non ha ancora intaccato la corazza dei pregiudizi di genere.
La testimonianza di Ottelli riecheggia con storie simili da tutta Italia. Dalle apicoltrici a chi lavora nelle malghe, le agricoltrici raccontano di dover dimostrare costantemente le proprie competenze, di vedersi scavalcate, di subire commenti paternalistici sulla propria capacità di gestire macchinari e coltivazioni. Un fenomeno con radici profonde, visto che l’agricoltura italiana conserva ancora l’impronta di una società patriarcale in cui la donna era confinata a ruoli di supporto e cura, al massimo di vendita.
Eppure proprio le donne che stanno trainando alcuni dei cambiamenti più significativi del settore. Dalle produzioni biologiche all’agriturismo, dal social farming all’agricoltura di precisione. In molti casi sono state le imprenditrici a intuire per prime le potenzialità di questi mercati emergenti. Non si tratta di una questione di vittimismo, bensì di una questione di sprechi.
Quanta competenza sottovalutata, quante opportunità perse, quanti talenti ignorati «pur di non ammettere che per una volta, in certi casi, noi donne siamo più brave di loro», si chiede l’allevatrice. La verità è che l’agricoltura italiana ha bisogno di tutte le sue energie migliori, uomini e donne. Finché i fornitori continueranno a cercare l’uomo di casa anche quando la padrona è davanti a loro, l’agricoltura italiana continuerà a sprecare il suo potenziale.
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