C’è un “working class hero” più “hero” di un cameriere, al giorno d’oggi? Sì, forse c’è, basti pensare, senza allontanarsi troppo dal ristorante, ai poveri rider, ultimi anelli della catena alimentare della gastronomia, con i loro scooter sfiatati e le loro pizze da non far diventare (troppo) fredde. Però anche i camerieri, nel loro piccolo, si incazzano. Invocati come messia da ristoratori a corto di personale e malgrado ciò sempre e comunque con il coltello dalla parte della lama, sono i veri proletari del nostro tempo, anche se con scarpe lucide e papillon (talora).
La copertina di “Risto Reich”
Certo, non è per tutti così, non è dappertutto così. Ci sono storie virtuose di rispetto, di stipendi giusti, di orari osservati, di straordinari pagati, che riguardano soprattutto il fine dining e i gruppi gestiti con precisione imprenditoriale. Ma queste sono storie che non fanno notizia, anzi non fanno romanzo. La letteratura sulla ristorazione si nutre soprattutto di storiacce, come quelle raccontate ds Luigi Chiarella nel libro Risto Reich (sottotitolo “Il Lavoro del Cameriere”) da poco uscito per Alegre (368 pagine, 17 euro), il “dining room confidential” raccontato dal punto di vista di chi come l’autore questo lavoro lo ha fatto.
Luigi Chiarella
Calabrese, classe 1976, Chiarella è attore e autore di testi teatrali, vive a Vienna, dove ha dovuto spesso mantenersi lavorando nei ristoranti della capitale austriaca. Un cliché, questo: ricordate la battuta che gira molto tra gli attori squattrinati che gravitano attorno a Broadway? “Che lavoro fai?”. “L’attore”. “Ah, e in quale ristorante?”. Chiarella questa vita l’ha fatta davvero, per dieci anni, e la circostanza che le sue esperienze siano state vissute a Vienna non rende la denuncia meno forte: il protagonista del romanzo (che tanto romanzo non è, l’avrete capito) è appena giunto in Austria, mastica poco di tedesco e quindi cerca lavoro nel giro dei ristoranti italiani, dove può parlare la sua lingua con proprietari sfuggenti, direttori nazisti (“o così o la porta è quella”), colleghi nonnisti, ladri, scorretti, loschi, violenti e qualche volta perfino umani.
Quello che Chiarella racconta è il lato B della ristorazione, le “cene di lotta di classe” che sono alla base dell’industria del piacere gastronomico. Un mondo fatto di contratti a dieci ore per lavorarne cinquanta a settimana, di giorni di riposo saltati, di tutele assenti, di mance sparite, di cazziatoni e minacce, di tatuaggi coperti e orecchini fatti togliere, di clienti cafoni, di cuochi incattiviti, di regole insensate. “Non c’è giorno – racconta il protagonista Luigi descrivendo il clima di uno dei primi ristoranti in cui si trova a lavorare – che passi senza che Toni minacci qualcosa o qualcuno. Anche se non è successo nulla, anche se non serve. E poi non c’è giorno senza una nuova legge, le regole che sforna di continuo le chiama leggi. Troviamo i fogli degli editti appiccicati con lo scotch sui muri dello spogliatoio, nell’angolo nascosto dietro al bar, sul muro della cucina di fronte all’ingresso, così che entrando ce li troviamo sempre davanti agli occhi”.
Un ristorante italiano a Vienna
Naturalmente la vita da cameriere per chi è come Luigi è una vita di perenni cambiamenti. A volte viene licenziato in tronco, altre volte è lui stesso ad andarsene per evitare che la situazione trascenda, in un caso addirittura viene scambiato tra due ristoranti di titolari amici come fosse un calciatore un po’ scarso. Malgrado questo lui si adatta, migliora, si fa furbo, usa l’ironia come arma e la bellezza come via di fuga, capisce come muoversi e riesce sempre a cavarsela, in qualche modo. C’è da giurare che di vessazioni, nel mondo della ristorazione (austriaca o italiana) ce ne siano di ben peggiori di quelle raccontate da Chiarella. Eppure è proprio questa mancanza di un climax drammatico che sembra sempre in procinto di arrivare ma alla fine non arriva mai a dare il verso senso del racconto di “Risto Reich”: la banalità dell’abuso, l’assuefazione a un sistema di prepotenze e diritti negati che in molti accettano per mancanza di alternative e perché alla fine quello del cameriere è il primo lavoro che ci si adatta a fare quando non si sa cosa altro fare, sempre meglio che morire di fame, perché di camerieri c’è sempre bisogno e nell’incessante turn-over alla fine c’è posto per tutti. Ma sappiate che ogni volta che mangiate un piatto in un ristorante, probabilmente quel piatto ha un ingrediente che non figura nel menu: lo sfruttamento.
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