Sfamare un gruppo di persone in un ambiente dove non esiste suolo fertile, non c’è acqua corrente, l’elettricità è limitata e ogni errore può avere conseguenze fatali. Non si tratta di un film di fantascienza, ma di due realtà molto concrete: una futura base lunare e un eventuale – anzi, sempre più attuale – centro di accoglienza post-terremoto.
Come riportato in un recente articolo di Nature, per quanto diversi, questi mondi condividono un problema identico: come garantire cibo sicuro, nutriente e sostenibile in condizioni estreme.
A tal proposito, oggi, mentre le agenzie spaziali progettano insediamenti sulla Luna, i governi si trovano ad affrontare emergenze umanitarie sempre più frequenti, causate da disastri naturali. In entrambi i casi, la logica è la stessa: costruire sistemi alimentari resilienti, autonomi e in grado di sostenere la vita dove la logistica tradizionale fallisce. Ed è proprio in questa convergenza che nasce una nuova frontiera del cibo.
Il Giappone è uno dei Paesi che ha investito maggiormente in questo incrocio tra ricerca spaziale e gestione delle emergenze. Dopo il terremoto e lo tsunami del T?hoku nel 2011, che causarono il disastro di Fukushima, è emersa l’urgenza di fornire pasti pronti all’uso, sicuri, a lunga conservazione e facilmente consumabili anche senza elettricità o gas.
Da qui l’intuizione: coniugare e adattare la ricerca sui cibi sviluppati per le missioni spaziali anche ad usi terrestri.
In questo senso, l’agenzia spaziale giapponese JAXA ha contribuito alla creazione di un sistema di certificazione per i cosiddetti cibi da disastro, basato sugli stessi standard spaziali. Nel 2022 è stato avviato un programma di cross-certificazione, che consente ai prodotti già approvati per l’uso in orbita di essere impiegati anche in contesti di emergenza.
Ne è derivato un doppio beneficio: meno sprechi nello sviluppo e disponibilità immediata di alimenti in caso di crisi, tanto che oggi alcuni dei 53 alimenti spaziali giapponesi vengono già utilizzati nelle aree colpite da catastrofi.
In questi contesti, però, non conta solo l’apporto calorico del cibo. Anche in emergenza – e ancor più nello spazio – è essenziale prevenire carenze vitaminiche, perdita di massa muscolare e squilibri metabolici. Per questo JAXA ha lanciato il progetto Lunar Food System, con l’obiettivo di valutare se otto colture chiave (tra cui riso, soia, patate dolci, pomodori e fragole) possano soddisfare i fabbisogni nutrizionali di base.
Simulazioni dietetiche, studi di coltivazione e modelli nutrizionali sono in corso per verificare se una dieta composta esclusivamente da colture cresciute in ambienti chiusi possa sostenere un equipaggio lunare o una popolazione colpita da un disastro.
Nel frattempo, studi internazionali stanno esaminando l’uso di integratori antiossidanti (come omega-3, polifenoli e selenio) per contrastare la perdita di massa muscolare in microgravità. In questo senso, esperimenti condotti sulla Terra, su pazienti immobilizzati, suggeriscono che specifici peptidi della soia possano rallentare la degradazione delle proteine.
Queste stesse molecole, già testate in laboratorio, sono ora in fase di sperimentazione sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Che si tratti di una missione lunare o di un’isola colpita da un tifone, il principio resta lo stesso: un sistema agricolo chiuso, capace di produrre cibo in autonomia. In Giappone, il consorzio Space Foodsphere sta sperimentando moduli integrati che combinano coltivazioni, allevamento di pesci e insetti, e riciclo completo di acqua, aria e rifiuti organici.
L’idea è quella di creare un ecosistema alimentare circolare, dove ogni scarto diventa risorsa: i residui della soia nutrono i pesci; i resti dei grilli diventano fertilizzanti; tutto si svolge in un ciclo continuo, senza dipendere da rifornimenti esterni.
Tuttavia, le sfide non mancano: prevenire contaminazioni microbiche, gestire i rifiuti in spazi ridotti, adattare i sistemi alle condizioni di microgravità, dove persino un liquido si comporta in modo imprevedibile.
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