Piano piano anche la Catalogna – patria dell’avanguardismo molecolare – si sfila dai laboratori di cucina ultra sperimentale e riscopre il mito della nonna. È Jodi Artal (chef del Cinc Sentits, due Stelle, di Barcellona) che sul The Guardian accende le micce: «Ci siamo sempre divisi tra chi che crede che si debba cucinare solo ciò che è di stagione e Adrià che invece afferma: “Sono un artista, trovatemi la ciliegia migliore del mondo a gennaio, così potrò fare il mio piatto”». E ancora, polemico con certa scena del fine dining globale: «Adoro lo yuzu, ma non c’è nel menu perché non potrei dire che mia nonna usava lo yuzu». Appunto. E così il quotidiano inglese sottolinea il passaggio: nell’anno in cui la Catalogna è stata nominata Regione Mondiale della Gastronomia 2025 dall’Istituto Internazionale di Gastronomia, Cultura, Arti e Turismo, si consuma anche l’abiura. Che in realtà proprio abiura non è. Ma certo, se prima l’avanguardismo soffocava tutto il resto, ora le cose stanno cambiando. E si guarda alla cucina della nonna.
«Basta copiare El Bulli. Ora quella lezione è diventata un enorme repertorio di tecniche che ognuno può applicare alla propria cucina», sostiene Jordi Artal. Come dire: siamo cresciuti, la rivoluzione è cosa passata; ora costruiamo la nostra identità. Ecco, la Spagna della ristorazione che a inizio anni cercava una “narrazione”, voleva costruire la sua “identità culinaria” e comunicarla, ora forse la sta trovando. E dopo la “rivoluzione” di Ferran Adrià che ha chiuso il suo El Bulli 14 anni fa, ora guarda alla “nonna”, alla tradizione, al territorio. Pure se poi anche la cucina delle nonne non è avulsa da errori anche marchiani. Chiosa sempre Artal, che in questa fase fa il mediatore: «Non direi che c’è un contraccolpo; fa parte del flusso e riflusso naturale. Utilizziamo tecniche moderne ma in modi che si rifanno alla storia gastronomica catalana. Questo è l’ideale».
Ma una sorta di frattura c’è. Come negarlo? Tanto che anche una come Carme Ruscalleda ora rivendica: «Il concetto può essere cambiato, ma la mia cucina si è sempre basata sul Mediterraneo e sui suoi prodotti». Vero. E va anche oltre… «Dobbiamo abbracciare nuove idee senza perdere di vista ciò che siamo. La cucina catalana ha radici romane, greche e medievali. Facciamo molti piatti che sono fondamentalmente medievali ma con tecniche moderne». Tanto che – sottolinea sempre il Guardian – chef come i fratelli Roca a Girona e Jordi Vilà a Barcellona hanno aperto, accanto ai loro ristoranti di punta, locali più modesti in cui offrono piatti più tradizionali. «Stiamo adottando una visione ampia ma non semplificata della cucina catalana», si premura di mettere le mani avanti Joan Roca. E gli fa eco Vila, chef dell’Alkimia, premiato con una Stella, e del “bistrot” Al Kostat del Mar: «Joan Roca e Carme Ruscalleda hanno sempre cucinato cibo catalano, ma è successo che ciò che è diventato importante è quello che chiamiamo cocina vanguardista, quando ciò che conta davvero è usare prodotti locali ed esprimere se stessi in cucina».
In tutto ciò non sono certo da sottovalutare i costi del fine dining e della cucina sperimentale: Ferran Adrià e il suo socio Juli Soler potevano permetterselo, avendo creato un vero e proprio colosso dell’avanguardia con tanto di contratti anche con l’indutria agroalimentare spagnola e non solo. Infatti, ora Jordi Vila precisa che «molti giovani chef non aspirano a essere Joan Roca o Ferran Adrià, ma vogliono cucinare i piatti che facevano le loro madri o le loro nonne». La differenza, a livello di costi e di prezzi c’è e si fa sentire. La tradizione alla fine difficilmente potrà costare conme l’avanguardia e il fine dining. Oriol Castro, uno dei tre chef – tutti ex El Bulli – dietro Disfrutar, eletto miglior ristorante del mondo l’anno scorso, non ha dubbi: «Nessuno si aspettava che la gente pagasse questo tipo di prezzi per i piatti catalani di base». E così la cucina della nonna punta a mantenere storytelling e sapori, pur volendo continuare a stupire: «A Disfrutar poponiamo molti piatti basati su ricette tradizionali, con nuove tecniche ma con sapori tradizionali: come il suquet de peix (stufato di pesce e patate) o il mar i muntanya (stufato di frutti di mare e coniglio o pollo) – dice Castro – Ma non c’è alcun contraccolpo contro la scuola del Bulli. La gente viene qui per mangiare versioni moderne e creative di piatti tradizionali. Ciò che è importante è la combinazione di creatività e tradizione. Non c’è una guerra. Tutti noi vogliamo preservare questa tradizione».
Al di là delle mediazioni tra vecchio e nuovo, in realtà il bisogno di riscoprire territorio e tradizione passa anche attraverso la carta dei vini. Tanto che sempre Artal non ha dubbi nel dire che «nella mia carta dei vini ci sono solo etichette catalane e spagnole. Non posso spiegare a un cliente – dice lo chef di Cinc Sentits – che un piatto è stato ispirato dalla mia bisnonna e che stiamo usando ingredienti di provenienza locale e poi servire un vino di Bordeaux». Una questione che anche da noi in Italia è stata molto dibattuta, ma che ormai abbiamo ababstanza superato sulla strada della laicità del gusto. A partire dagli Champagne.
La moda global e le tendenze del gusto internazionale colpiscono anche in Catalogna: se intorno al capoluogo la cucina tradizionale ha un suo appeal, a Barcellona sono sempre più i locali etnici e fusion che conquistano i più giovani. In un ironico “manuale di autodifesa” per la cucina catalana, Vilà afferma: «Non sono contro il ramen o gli hamburger, sono contro la globalizzazione». e si spiega contestualizzando: «Qui ci sono 50 locali di ramen e nessuno che serva l’escudella», che è uno stufato tradizionale catalano con pasta. Secondo Ruscalleda, che condivide l’allarme, la colpa sta nel fatto che ormai non si cucina più a casa. «I giovani sono attratti dalle novità, quindi ordinano sushi o ceviche, ma non conoscono la loro cultura», denuncia la chef di Sant Pol de Mar. È sempre Jordi Vilà a ipotizzare un futuro possibile per la cucina catalana: «Siamo in una fase di transizione: le nonne del futuro non vogliono stare a casa a cucinare, ma vogliono godersela in giro per il mondo. Un top chef non può sostituire una nonna, ma sta a noi mantenere viva la tradizione».
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