All’ingresso del Ghetto, attaccato al ristorante Sheva che propone “specialità romane” dagli ombrelloni che proteggono i pochi avventori sotto l’afa capitolina, c’è il banchetto di Bet Chabat. In questi giorni hanno un bel daffare, coi voli bloccati da e per Israele: loro sono un movimento ortodosso che si propone di aiutare e sostenere ogni ebreo e di divulgare il giudaismo. In questi giorni intorno al Ghetto di Roma c’è un continuo via vai di turisti con la kippa. Anche se l’atmosfera non è quella di qualche tempo fa. Siamo andati a sentire i ristoratori per capire come vivono, loro e i loro clienti, questi giorni drammatici per il loro Paese e per l’intero Medio Oriente. UCome abiamo registrato, la scorsa settimana, l’urlo di dolore della chef iraniana a Roma. Al banchetto del Bet Chabat c’è un signore canuto che indossa la kippa. Gli chiediamo come la comunità ebraica e la ristorazione al Ghetto viva questi giorni. Lui risponde che non sono ristoratori. Beh, certo… ma forse anche voi vivete l’atmosfera che anima questa lunga strada nel cuore di Roma. «Mi guardi – fa lui, severo – Mi guardi… (in realtà lo sto guardando, ma forse è spiazzato dal mio occhio difettoso che punta per conto suo verso destra!) – Noi non siamo ristoratori – ripete – Capisco la domanda, ma non abbiamo nulla da dire».
In realtà, già all’inizio di via Santa Maria del Pianto – la stradina che da via Arenula sbocca su via del Portico d’Ottavia – una breve sosta da Beppe e i suoi formaggi ci aveva introdotto all’atmosfera che da due anni sta intristendo una delle zone più cosmopolite e gioiose di Roma e che ancor di più in questi giorni si è fatta molto cupa. La formaggeria non ha legami con la tradizione ebraica. «Ma qui ci si conosce tutti – sorride Anita che esce dal bancone per raccontarci la sua esperienza – L’aria si è fatta molto pesante, c’è molta meno gente che rimane comunque un po’ più chiusa nell’ansia… Come se si fosse tornati a una dimensione di ghetto. La gente sembra tenersi un po’ fuori… Magari non è consapevole, ma sicuramente qualcosa c’è». Le fa eco il suo collega Matteo: «Credo che il flusso di gente qui al Ghetto sia più che dimezzata nel corso di questi mesi. E la situazione è pesante. Se prima c’era sempre qualcuno che sforava dalla dieta rigida kosher e si fermava a mangiare un pezzetto di buon formaggio tradizionale, fatto col caglio animale, ora non più. Sono tutti più chiusi. Una mesata fa sono entrati al Ghetto due ragazzi con la kefia, magari un po’ spavaldi, un po’ provocatori… Ma di fatto li hanno malmenati davanti ai carabinieri: solo perché avevano la kefia. E nessuno è intervenuto. Nessuno ha denunciato nulla. Nulla…»
Poco più avanti c’è la piccolissima pizzeria ebraica attaccata al famoso forno Il Boccione, quello della mitica crostata di ricotta alle visciole che anche oggi è pieno di turisti. La pizzeria è vuota. C’è una commessa a cui chiediamo della situazione al Ghetto. Ci guarda di traverso. «Non è certo il caso di parlare, adesso – fa lei accompagnandoci fuori – Ora qui è tutto top secret».
Diversa, invece, la reazione di Sandra, una delle titolari del Boccione. «Ci dispiace di tutto… Come vuoi che la viviamo? Come tutti… Ci vanno sempre di mezzo gli innocenti – fa lei mentre continua a pulire il piccolo laboratorio. Ma subito cambia tono – Però voglio pure dire che se uno avverte una due tre quattro volte, poi si stanca e succede la catastrofe…» Ma la gente continua a frequentare il Ghetto? «Non so se sia la stagione, il gran caldo o la paura… O magari perché è arrivato anche un po’ di antisemitismo… Ma la gente è sempre di meno… Guardi a Milano che hanno picchiato due solo perché indossavano la kippa…» Un po’ come qui hanno malmenato due ragazzi con la kefia, no? Forse sarebbe il caso di farla finita o no? «Un conto però è girare per Milano, altro è venire nel nostro quartiere solo per fare il galletto… Allora ci prendi le botte». Anche Sandra, però, si rende conto di come gli echi di guerra inaspriscano gli animi anche a migliaia di chilometri di distanza. E infatti ragiona: «Qui nei ristoranti lavorano tutti arabi e islamici… Qui c’è sempre stato il massimo rispetto per tutti…».
La reazione dei romani di tradizione ebraica in questo pezzo di Roma oscilla tra rabbia, paura e orgoglio. C’è chi punta a far finta di nulla: tutto procede come sempre. Lo dice Samuel Dabush, della famiglia che gestisce le numerose insegne Ba’Ghetto (ristorante, braceria, bakery, caffè, meta amata da Francesca Pascale che si trascinava dietro il suo allora fidanzato, Silvio Berlusconi): «Situazione relativamente tranquilla… Tutti abbastanza sereni, ma c’è molto più controllo e allerta da parte delle forse dell’ordine – spiega Samuel dopo aver avuto il permesso di parlare con noi dal padre, Ilan – Si fermano da noi molti francesi e americani e adesso anche molti israeliani, con gli aeroporti chiusi. A Milano probabilmente si vive una tensione maggiore, ma a Roma devo dire che siamo ancora tranquilli… Ieri sera un gruppo di francesi ha fatto una festa di matrimonio, in braceria… si sono divertiti, sono stati bene e senza problemi…». A pochi metri c’è un grazioso piccolo street food, Bellacarne. Il giovane proprietario non vuole parlare: «Non è proprio il caso. Non mi sento proprio di dire qualcosa, adesso…»
C’è poca, pochissima gente in questo assolato lunedì romano, al Ghetto. Il luogo più animato è l’ingresso del,’HT6 Boutique Hotel: ora quasi pieno ma per diverse settimane quasi vuoto tra cancellazioni e disdette… «Ora abbiamo solo due camere libere perché ci sono diversi turisti israeliani che non possono rientrare a causa dei voli bloccati – spiega il direttore, Andrea D’Onofrio – Poi, sono anche arrivati diversi turisti con le occasioni del last minute: chi non riesce a rientrare in Israele o non può comunque andare, magari sceglie di fermarsi qualche giorno a Roma».
«La flessione di presenze, qui al Ghetto, è evidente nei due anni trascorsi», ci spiega Michele Pavoncello, titolare di Nonna Betta. Gli chiediamo cosa dicono o suoi ospiti: se hanno paura o preoccupazione, cosa pensano della situazione internazionale… «Chi viene esprime vicinanza. Chi non sente vicinanza, non viene. C’è anche chi ha paura, ma molti sono quelli che non vengono per una posizione politica, specialmente tra i romani. Ma alla fine, noi cosa c’entriamo? Il nostro socio, qui, è un egiziano copto: facciamo anche cucina egiziana. E c’è chi ci sbeffeggia sui social scrivendo: “ah, pure quello gli avete rubato“. Sono proprio beceri, noi siamo qui da sempre…»
Massimo, cameriere alla Taverna del Ghetto, quando gli chiediamo della situazione mentre in Medio Oriente c’è guerra, risponde: «Ecco. La guerra è in Medio Oriente, non a Roma. Qui tutto è tranquillo e sotto controllo. Se c’è una zona sicura in Italia, è proprio questa». Può darsi, anzi sicuramente. Ma dal vicino Sheva – ristorante di cucina italiana dove lavorano tutti asiatici – l’analisi è lucida: «La situazione è tragica. Non c’è più nessuno. Non si lavora più», ci spiega il più anziano dello staff che alza la testa dal veloce pranzo coi colleghi prima di iniziare il servizio.
«Purtroppo il periodo è molto difficile – ci conferma Noah, giovane titolare di Casalino – La guerra coinvolge e stravolge tutto. Ma anche se non si è d’accordo con Netanyahu, perché odiare tutto un popolo?». Sente che ci sia razzismo, antisemitismo? «Certo che sì – fa la ragazza – Spero solo che finisca presto. E che si possa tornare a girare con la kippa anche fuori dal Ghetto». Non potreste fare pressioni sul governo di Israele perché si torni a un dialogo civile? «Ci dovevano ridare ostaggi e sarebbe finito tutto…. Speriamo in una pace x tutti…»
La speranza è di pace, ma il clima è di guerra. Gli animi si chiudono e le convinzioni di ognuno si irrigidiscono. Purtroppo è questo il meccanismo su cui gioca anche chi la guerra la usa come calcolo politico. «Nessuno vuole questa situazione – fa renato che ha dato il suo nome al ristorante al Ghetto e alla vicina rosetteria – Ma credo proprio che non sarà una crisi di breve durata…»
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