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Intervista

"Con Langosteria ho fatto diventare il fine dining un lusso pop". La ricetta di Enrico Buonocore

“Alta ristorazione dal volto umano, gentile, accogliente”. Parla il patron di Langosteria e racconta il perché del suo successo non solo in Italia

  • 17 Maggio, 2025

Langosteria, quattro locali a Milano, uno a Paraggi, uno a St Moritz, uno da record a Parigi, altri in arrivo, un fatturato da 62 milioni: una insegna importante nella costellazione del luxury italiano ed europeo. Parliamo del futuro della ristorazione con il creatore di questo piccolo – importante – impero del gusto. E del lusso. La prima domanda per Enrico Buonocore gliela buttiamo là nuda e cruda, anche banale… Qual è il segreto? «Domanda brutale, risposta complessa. Abbiamo appena compiuto diciotto anni, abbiamo costruito passo passo quello che si vede oggi. All’inizio Langosteria non aveva nessun obiettivo se non quello di sostenersi. Oggi continuiamo a essere fedeli ad alcuni principi, malgrado tutti gli eventi avversi, dal Covid fino alla crisi del lusso che stiamo vivendo a livello internazionale anche se nessuno ha il coraggio di dirlo».

Foto di Cecile Guillaume

La crisi quindi riguarda anche voi?

Noi, ringraziando il Signore, stiamo vivendo anni uno più positivo dell’altro. Cosa non facile in un Paese che ragiona con l’oggi e non con il domani, dove pensare in grande non è facile. Le racconto questa…

Prego…

Ho appena cambiato casa. Una vicina mi incontra e mi dice: vedo sempre le luci accese la sera. E io: le sembra strano? E lei: ma scusi, non siete tutte le sere al ristorante? Oggi si pensa ancora che avere un ristorante sia stare sempre là, presidiare, la teoria del Rottweiler che fa la guardia al cancello di casa.

E lei non abbaia?

Abbiamo costruito un modello di organizzazione con delega verso un team di persone formate che lavora assieme quotidianamente, cercando di raggiungere i risultati che ci prefiggiamo e misurandoli settimanalmente. Abbiamo ragionato come fa un’azienda produttiva che deve replicare giornalmente un modello di ospitalità verso una clientela esigente, che comprende e giudica.

Foto di Tommy Ilai

Mangiare bene non basta?

No, oggi non basta più. Oggi l’unica cosa che il consumatore dà per scontato è mangiare bene.

E cosa fa la differenza?

Bisogna far star bene le persone. E questo passa per il 95 per cento dal capitale umano. Se riesci a creare una comunità di persone che crede in quello che fa, ragiona assieme, vive assieme i risultati positivi e negativi, riesci a fare qualcosa di consistente che negli anni produce valore e vedi il futuro senza ansie.

Ma voi appartenete al lusso o no?

Noi parliamo di lusso accogliente e disinvolto, ma i commenti dei clienti parlano spesso di lusso familiare. Lì credo ci sia tutto. Una qualsiasi persona che va a cena ama essere riconosciuta, sentirsi parte di una comunità. Uno dei fattori di Langosteria è che il 50 per cento dei clienti ogni sera sono consolidati. Questo è determinante. Vedo le persone salutarsi tra di loro, fare due chiacchiere da un tavolo all’altro, darsi consigli su cosa mangiare.

Da questo punto la ripetitività non è un limite.

Quella è la consistenza dell’operatività che fa il paio con il mantenimento degli standard produttivi che però vengono processati con umanità e anche con l’errore. Noi abbiamo la cultura dell’errore.

In che senso?

C’è stato un momento durante il processo di crescita in cui ho avuto la folle idea di standardizzare tutto, ma presto ho fermato le macchine e ho detto: non è fattibile. Noi abbiamo costruito un modello per cui sappiamo che un piatto va fatto in una certa maniera, che un bicchiere va messo in una certa maniera, ma in cucina cominciamo ad amare le piccole differenze tra un piatto e l’altro. Le linguine all’astice, piatto top performer del gruppo, devono essere buone ovunque, ma ci saranno sempre delle piccole differenze da un giorno all’altro, da una mano all’altra, da un luogo all’altro, anche perché i prodotti locali sono diversi. L’importante è che siano sempre buone, impiattate nel medesimo piatto, con la stessa quantità di pasta. Questo ti libera molto l’ansia.

Detto così sembra facile…

Diciamo che il nostro modello di gestione è come una squadra di calcio, un grande allenatore organizza la fase difensiva per non subire gol e lascia agli attaccanti la libertà di inventare.

Lei una volta ha detto che una delle cose di cui è più orgoglioso è che molti dei suoi manager sono stati prima camerieri e cuochi. Vero?

Vero. Il processo di crescita interna è quello che preferisco, ma al contempo ci sono delle skill che possono arrivare solo da fuori, nuove culture, nuovi modi di fare, e quindi abbiamo introdotto manager acquisendoli dal mercato e abbinandoli a persone che avevano lo stemma sulla maglia. La somma a volte non ha fatto il totale, ci sono stati momenti di tensione tra il vecchio e il nuovo.

Superati come?

Con i risultati, con la vicinanza, con il sostegno, con una progressione chiara. Oggi se arriva uno nuovo lo accogliamo nella maniera corretta, ne vediamo il valore, l’umanità. Il nostro archetipo è rispetto delle regole ed educazione. L’educazione è sempre il punto di partenza, il resto si impara, ma non è facile da trovare. Vuole sapere qual è la mia maggiore libidine?

Se restiamo nei limiti della decenza…

È quando vado a Parigi e a St Moritz, che visito con meno frequenza, e vedo l’attitudine corretta delle persone, quell’attenzione, quell’occhio attento. Mi sento tranquillo. E poi l’energia positiva crea buoni piatti, buona clientela, crea serate piacevoli, che danno quella allure al brand quel tangibile valore di esclusività. Il nostro ristorante è il più grande club al mondo senza una fee.

Il circolo della leggerezza…

Questo è il più bel complimento che potessi ricevere. Lo scontrino di Langosteria è scontrino importante, se un cliente lo paga con leggerezza vuol dire che è sereno e sta riponendo la fiducia nelle persone giuste.

Foto di Danilo Scarpati

È Langosteria l’antidoto alla boria del fine dining?

Io penso che i ristoranti non debbano insegnare nulla, ma devono essere luoghi in cui si condivide. Certo, raccontare il prodotto è una parte importante dell’esperienza, ma non bisogna essere saccenti, bevi il vino che vuoi, mica devo insegnarti a bere. Se andare al ristorante deve essere una punizione o un momento di valutazione c’è qualcosa di sbagliato.

Lei gira per stellati?

A un certo punto della mia vita ne visitavo molti, ora meno, sono più appassionato di trattorie. Una volta sono andato in Perù a mangiare da Virgilio Martinez. Mi aspettavo un locale con grande verità e disinvoltura, e invece ho trovato un modo di fare francese. Che modello è quello per cui sei in Perù ma potresti essere in qualsiasi parte del mondo? Eppure per tanti anni è passato questo messaggio.

Lei non ha una stella Michelin. Le pesa?

È una domanda che mi fanno in tanti. Ormai ci penso solo a novembre quando assegnano le stelle, non è più un cruccio.

Quindi un po’ lo è stato…

Vede, da un lato penso che sia assordante il fatto che soprattutto Langosteria di via Savona non abbia la stella Michelin, dal mio punto di vista è quasi un errore della guida. Io penso che Langosteria almeno dal 2013 sia ben al di sopra della media degli stellati. E infatti mi chiedo sempre, qualora un anno qualcuno si svegliasse e me la proponesse, io che cosa dovrei rispondere.

Ma secondo lei perché questo?

Credo che il motivo sia io, io non sono mai stato un cuoco e le stelle le prendono i cuochi. Darla a Buonocore significherebbe ammettere che non c’è bisogno di un grande cuoco. Qualche giorno fa ho parlato con il loro responsabile, Marco Do che mi ha ripetuto che la Michelin non recensisce i ristoranti, li segnala per i viaggi, indica i migliori. E siccome noi siamo i migliori tutti sanno dove siamo, non è che apriamo a Montecuccoli, apriamo a St Moritz in mezzo alle ville del lusso, apriamo a Parigi al settimo piano dell’hotel di un uomo che detiene le aziende più lussuose del mondo. Apriremo a Londra nel palazzo più bello della città, al The Owo con i potentissimi Hinduja.

Ecco: quando aprirete a Londra?

Alla fine di quest’anno, abbiamo avuto dei ritardi dovuti alle nostre paturnie.

Senta, ma che cosa fa esattamente Buonocore a Langosteria?

Oltre a guardare i conti e ad accertarsi con i suoi manager che tutto funzioni, intende? Sono l’addetto alla creatività, l’anima creativa di tutto quello che facciamo.

Solo questo?

L’altro tema importante è accertarmi di non perdere davvero il dna di Langosteria. Dimostrare al proprio team il proprio talento e la propria empatia è l’unica strada per il successo. Pensare di farlo dettando regole, dettando processi, senza interpretarli e viverli assieme alle persone, è praticare un comando sterile. Il mondo della ristorazione è un grande teatro.

E questo cosa c’entra?

Mi fa ridere ripensare a quando andai a Londra a vedere Cats e mi dissero che andava in scena da molti anni tutti i giorni due volte al giorno. E noi non facciamo forse lo stesso? Cuciniamo in maniera espressa, serviamo, sorridiamo e tutto quello che c’è nel resto delle nostre vite lo dobbiamo tenere fuori.

Un lavoro da grandi attori…

Ma io credo che chi fa questo mestiere ad alto livello debba essere professionale, questo lavoro non è un ripiego, è faticoso, richiede tanto impegno e tanta dedizione, chi lo fa deve essere felice e ben pagato. Spero che nel futuro il mondo si accorga che chi fa ristorazione bene, chi crea valore, vada anche protetto. Il contatto collettivo nazionale dei pubblici esercizi è una delle cose più vergognose che questo paese presenta quotidianamente ai propri lavoratori, sia perle tutele che per i costi che ne derivano e questo non è un facilitatore per costruire professionalità all’interno del settore della ristorazione.

Un problema solo italiano?

A Parigi, dove abbiamo un ristorante, si respira un linguaggio ben diverso dal nostro e questo grazie a personaggi importanti come Ducasse, Bocuse, Robuchon che hanno portato nel mondo la lingua francese dell’organizzazione oltre che dell’offerta gastronomica, Anche l’Italia e la Spagna hanno la possibilità di conquistare nuovi mercati perché i Francesi non se la passano bene soprattutto da un punto di vista dell’0fferta gastronomica. L’obiettivo di Langosteria è diventare il brand italiano più conosciuto al mondo.

Voi avete tanti progetti internazionali, ma non Roma. Perché?

Oggi abbiamo due insegne fuori da casa nostra, a St Moritz e a Parigi, che da qui a dieci anni diventeranno molte di più ma io cerco solo progetti incredibili in città incredibili per fare Langosteria e non la sua brutta copia. Roma ce l’hanno offerta in tutte le salse, l’altro giorno ho ricevuto l’ennesima offerta. Ma noi in questo momento abbiamo il sogno di portare Langosteria nel mondo e tra un progetto a Roma e uno a Madrid, a New York, a Los Angeles…

Peccato…

Non ho detto che non apriremo, ho detto che Roma non è una priorità.

Ma voi ricevete mai recensioni negative?

Io non leggo le recensioni perché mi arrabbio. Le vedo in un report che il mio operation manager mi prepara mensilmente. La nostra prassi è il “touch the table”, se il manager si accorge che a un tavolo qualcosa non va deve intervenire, cambiare un piatto sgradito, non fare pagare il piatto che non è piaciuto. Ma forse questo è meglio non scriverlo.

Teme che lo facciano tutti?

Ma no, scherzo. Comunque in questo modo si neutralizzano le recensioni negative. E se comunque arrivano noi mettiamo un tag sul nostro CRM (il Customer Relationship Management, ndr) e la volta successiva sappiamo che quel cliente non era stato soddisfatto.

Accade spesso?

Noi mandiamo una mail quotidianamente ai nostri ospiti in cui li invitiamo a lasciare una recensione. Eppure i ristoranti di Milano non ricevono più di otto-dieci recensioni al mese su Tripadvisor. Ne riceviamo molte su Google, ma quando dico molte alla fine è lo 0,5 per cento dei clienti che sono venuti da noi.

Pochissime…

E sa perché? Se vai al Louvre e non ti piace la Gioconda, non lo scrivi, perché pensi che sei tu che sbagli.

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