Caesar Salad. Club Sandwich. Blinis con il caviale. Salmone marinato. Mangiare nei cocktail bar dei grandi alberghi, alla fine, è come infilarsi in un’intercapedine spazio-temporale foderata di velluto e scegliere di nutrirsi di un esperanto gastronomico uguale più o meno in ogni angolo del mondo… salvo qualche tocco locale e in ogni epoca, giusto con qualche pedaggio allo Zeitgeist: ritocchi in fondo trascurabili e nemmeno troppo necessari. Un’esperienza alla fine rassicurante che trova la sua ragione di essere proprio nella sua rilassante e lussuosa asetticità.
Mangiare in un cocktail bar, e in quello di un albergo in particolare, e in quello di una grande catena di lusso ancora di più, è una scelta di libertà. Naturalmente c’è la libertà da certe angustie economiche che per trovarti in un posto del genere certamente possiedi. Ma c’è anche la libertà dalle tante convenzioni di una cena placée nel ristorante dello stesso albergo, che sia lo stellato o aspirante tale e che mima il codice ormai impolverato del fine dining: la prolissa narrazione del maître, la scelta del vino da una carta alta quanto I Fratelli Karamazov (ma molto meno avvincente), i tempi dilatati (che nel giro di due ore passi dal “che bello essere qui” al “ma quando finisce?”). Libertà, poi, anche dai cliché del secondo ristorante (dello stesso albergo), il bistrot, quello che paga pegno al territorio e che finisce per essere uno sciatto bignamino della cucina locale in un ambiente asettico e internazionale ma con tocchi sapienti di folclore indigeno. Li abbiamo visti tutti, locali del genere: hanno nomi come Il Giardino, La Limonaia, Dolce Vita e sai già che cosa puoi aspettarti. Puoi anche averne voglia; ma di solito no.
E allora meglio issarti sullo sgabello di un bancone del bar e lasciare che le cose vadano come vadano. Ti accomodi, ti portano un bicchiere d’acqua talvolta aromatizzata a qualcosa, e decidi. E a volte decidi di non decidere. Prendi un drink, se sei un tipo da solito prendi il solito (questo capita molto con i “martinisti”, con i “negronisti”, con i “gintonisti”) oppure ti fai consigliare dal barista, che da quel momento (e per tutta la serata) potrebbe diventare la cosa più simile a un amico che tu possa sperare di avere. Uno che non ti dice: “Spero lei viva una bella esperienza qui da noi”, ma che ti chiede: “Come è andata la sua giornata?”. Perché il codice del “dialogo da bar” è differente rispetto a quello “da ristorante”: più complice, s enza prosopopea. Insomma, c’è un cliente di bar d’albergo nascosto in tutti noi e qualche volta è bello lasciargli spazio. Anche perché lo stare al bancone di un bar, che tu sia solo in compagnia, sembra darti il diritto di osservare gli altri con una confidenza altrove considerata impudente. Sei dentro a un quadro di Edward Hopper, sei un falco della notte, tanto vale che te la godi.
Dicevamo, la libertà. Anche quella di mangiare, semmai, e di cosa, soprattutto. Con il tuo drink ti porteranno uno “starter kit” comprendente alcune cose da sbocconcellare, anche queste tratte dal repertorio delle cose-che-si-sgranocchiano-al-bancone-di-un-bar: arachidi, tarallini, patatine che sono sempre – ci avete mai fatto caso? – tra le migliori che tu abbia mai mangiato. Sono cose in qualche modo impreviste, anche se sai benissimo che arriveranno, e le guarderai con un rispetto che di solito non riservi a questa minuteria gastronomica. Da lì in poi potresti anche scoprire di avere voglia di qualcosa di più sostanzioso, che quello potrebbe essere l’approdo per la tua serata e non una semplice tappa di passaggio in vista di magnifiche sorti e progressive.
E allora chiedi: e ti arriva una carta. Stringata, solida, asciutta, intramontabile, universale. Piatti senza menate gourmet, senza storytelling, senza formaggiai di alpeggio in lontananza, senza pescatori all’amo, senza campesinos che coltivano amaranto e yucca. C’è perfino qualche speranza che non ci siano leche de tigre, salse pil pil e salicornie varie. Puoi avere un Club Sandwich, misterioso cibo che ha cittadinanza esclusivamente nei grandi alberghi (un po’ come le spazzole per le scarpe), oppure un assortimento di salumi, un’insalata, un hamburger. Qualche volta, se le cucine dell’hotel lo consentono, potresti perfino avere accesso ad alcuni dei piatti dalla carta del ristorante principale che ti potrai godere lì, senza prenotazione, sfuggendo alla liturgia della cena placée. Un guilty pleasure furtivo, da sgabello.
Certo, non tutto è così semplice. Anche nei bar degli alberghi le cose stanno cambiando. Il dialogo tra mixology e cucina, che è una delle tendenze della gastronomia contemporanea e che taglia fuori di un colpo il povero vino sotto attacco da ogni direzione, ha fatto sì che la proposta commestibile dei grandi bar si sia fatta più articolata. Al Mandarin Garden del Mandarin di Milano, in pieno centro, oltre alla proposta “all day” che comprende i piatti universali della cucina da hotel ma anche un Risotto alla milanese, un Minestrone di stagione e un Rombo con spinaci e salsa al limone, si può attingere negli orari di pranzo e di cena a un menu firmato dallo chef bistellato del Seta, Antonio Guida, con proposte più semplici ma dalla tecnica impeccabile, come il Vitello tonnato, le Fettuccine al gran ragù, l’Agnello arrosto con verdure primaverili e camomilla. A pochi chilometri di distanza, al Viu in un angolo appartato di Chinatown, l’insegna Bulk con gli occhialini tondi-quadrati di chef Giancarlo Morelli abbatte i muri tra bar e ristorante proponendo una serie di piatti da condivisione che possono essere sia un accompagnamento ai buoni cocktail sfornati dal bar sia una vera e propria “destinazione”: Gnocco fritto e prosciutto crudo 24 mesi, Tartare del Bulk, Casoncelli alla bergamasca, le Patatine del Bulk (c’è gente che va lì solo per quelle!), lo Spaghetto ai cinque pomodori. Chi vuole qualcosa di più creativo non ha che da spostarsi al Morelli Ristorante poco più in là: e lì troverà tovaglie bianche, animelle, tarassaco bruciato e verbene di ordinanza. E metti che sei a Napoli, al Grand Hotel Parker’s, e tu voglia provare un po’ di cucina partenopea tradizionale. Non andrai certo al George’s del pur bravo chef Domenico Candela, con le sue due stelle, ma ti affaccerai sul golfo più bello che c’è dalla Bidder Terrace, dove potrai mangiare a qualsiasi ora del giorno un Toast prosciutto e formaggio, ma anche una Parmigiana di melanzane, la Lasagna di mamma Matilde (nei grandi alberghi evidentemente le nonne non sono ammesse) e perfino una buona pizza margherita.
Poi ci sono casi in cui il bar è decisamente, in assoluto, il posto migliore dove trascorrere la serata. Ti trovi all’Aman nel cuore di Venezia, nel bellissimo Palazzo Papadopoli, che affaccia sul Canal Grande e il bar, nella sala rossa con le tappezzerie in seta e l’affresco di Cesare Rotta, è certamente l’opzione più astuta: trovi i cocktail del bravissimo Antonio Ferrara (sono 6 in carta, ciascuno ispirato a una delle stanze del palazzo) che ti vengono serviti con i classici cicchetti alla veneziana (Chips di polenta e baccalà mantecato, chips di semi di lino e guacamole, crème fraîche e caviale, oltre a una focaccia alla pugliese) e sei più felice qui che nel ristorante accanto, l’Arva, dove la venezianità si annacqua in una proposta più turistica.
Lo stesso può capitarti al Pictura, il bar del Mandarin Hotel Ritz di Madrid, dove ti siedi al bancone con l’idea di farti un drink prima di cena, guardando le gigantografie con cui è arredata la sala e in cui la fotografa madrilena Paula Anta ha immortalato concittadini contemporanei nello stile dei grandi ritratti esposti al vicino Prado… e poi piano piano ti rilassi, parli con il barista che ti suggerisce una mostra da vedere assolutamente il giorno dopo, e alla fine ti ritrovi a mangiare uno Jamòn bellota 100 per cento Torreòn come non ti capitava di mangiarne da anni e delle Costolette di agnello alla griglia con patate al rosmarino. E questo potrebbe essere meglio, molto meglio, che trascorrere ore a pettinare l’ego di Quique Dacosta al Deessa, nello stesso hotel.
La fenomenologia del mangiare nei bar dei grandi alberghi in fondo assomiglia molto a quella dei fast food di tutto il mondo: luoghi aperti tutto il giorno, senza prenotazione, dove trovi sempre un piatto caldo anche all’ora di merenda o del bicchiere della staffa, con una proposta piuttosto standardizzata che azzera i “lost in translation” linguistici e culturali, in ambienti di passaggio e con codici di arredamento standardizzati, che anonimizzano il cliente regalandogli però il privilegio, come detto, della libertà. Luoghi in qualche modo democratici (certamente con fasce di prezzo molto differenti), di servizio, una specie di grande frigo di casa sempre accessibile. In qualche modo entrambi rispondono a logiche globaliste e “industriali” nel momento stesso in cui l’alta cucina trova rifugio nel localismo, nell’artigianalità, nel piccolo è bello. Ma qualche volta è bello ricordarsi quanto è bello mangiare al bancone del Grande Hotel Terra.
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