Negli Stati Uniti cresce il numero di ristoranti che si dichiarano apertamente seed oil-free. Sui menu e sui profili Instagram compare sempre più spesso la scritta “no seed oils” – niente olio di semi – come segnale di qualità, attenzione alla salute. Ma dietro questa scelta all’apparenza salutista – come segnala Eater – si nasconde un intreccio di convinzioni personali, sfiducia nella medicina ufficiale e slogan della destra americana.
Con “seed oils” si indicano gli oli estratti da semi vegetali come girasole, soia, mais, canola e cotone. Negli Stati Uniti sono diffusissimi: si usano per friggere, per preparare maionesi e prodotti industriali da forno. Il sospetto che questi oli contribuiscano a stati infiammatori dell’organismo — a causa dell’alto contenuto di omega-6 — ha spinto una parte del mondo wellness a demonizzarli, nonostante manchi un consenso scientifico chiaro in merito.
Storicamente, negli Stati Uniti non si è mai fatto grande uso di olio extravergine d’oliva, considerato troppo costoso o poco neutro nel sapore. Nei ristoranti seed oil-free oggi si prediligono quindi altri grassi: sego di manzo (beef tallow) per friggere, burro per le preparazioni da forno, olio di avocado e olio extravergine d’oliva per condire o cuocere a basse temperature. Alcuni chef utilizzano anche grasso di pollo ricavato dalle cotture, o burro chiarificato (ghee). Sono grassi più costosi, più instabili nella gestione industriale, ma che vengono proposti come “più naturali” e coerenti con un’idea di cucina domestica, artigianale e “pulita”.
La ricerca scientifica più accreditata non sostiene questa demonizzazione. Secondo una review pubblicata su Science (2023), il consumo moderato di oli di semi non è correlato a un aumento del rischio infiammatorio nei soggetti sani. Al contrario, alcuni studi mostrano che gli omega-6 possono cooperare con gli omega-3 per regolare positivamente la risposta immunitaria. Anche l’American Heart Association continua a raccomandare l’uso di oli vegetali come alternativa ai grassi saturi, in un contesto di dieta bilanciata.
Eppure la guerra all’olio di semi è ormai entrata nel discorso politico. Robert F. Kennedy Jr., oggi Segretario alla Salute nell’amministrazione statunitense, ha dichiarato che i seed oils sono “tra gli ingredienti più dannosi nei cibi americani”, e ha rilanciato lo slogan “Make Frying Oil Tallow Again”. Alcuni ristoratori dichiarano di non voler fare politica, ma il rifiuto dell’olio di semi è ormai diventato anche simbolo di appartenenza al movimento MAHA (Make America Healthy Again), che promuove una visione individualista e anti-sistema della salute, spesso intrecciata a posizioni no-vax, anti-glutine e anti-pillola.
Per molti clienti, mangiare in un ristorante senza oli di semi è diventata una dichiarazione di intenti: contro il cibo industriale, contro i grandi marchi, contro “il sistema”. È legittimo voler evitare alimenti ultraprocessati, ma difficile ignorare che intorno a questa scelta si stia costruendo una narrazione che supera la nutrizione e si trasforma in identità politica. E se sostituire la maionese con l’olio d’avocado può essere un gusto personale, farne un atto di militanza alimentare — magari basato su evidenze deboli — rischia di semplificare questioni molto più complesse.
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