Hummustown si espande ancora. Sono passati sette anni da quando Shaza Saker, nata a Damasco e cresciuta in Italia dove ĆØ diventata vice segretaria della Fao Cop (qui la nostra intervista), aveva deciso di aiutare concretamente il suo paese dāorigine devastato dalla guerra civile. Quellāaiuto si ĆØ materializzato prima in un laboratorio a Furio Camillo, aperto nel 2017, poi cinque anni dopo in un chiosco a Piazza della Repubblica, nei pressi di stazione Termini, diventato col tempo un punto di riferimento per il cibo siriano a Roma, infine nel bistrot di Viale Aventino inaugurato la scorsa estate. Da inizio dicembre ce nāĆØ un altro, a Via Francesco Negri 9, tra Piramide e Ostiense. Non ĆØ un chiosco, bensƬ un vero e proprio ristorante aperto a pranzo e a cena, con tre grandi vetrine che affacciano sulla strada.
Dietro lāapertura si celano diverse ragioni, tra cui lāesigenza di rispondere a una domanda impellente, cresciuta anche grazie agli eventi organizzati da Hummustown e ai social network, il passaparola del XXI secolo. La richiesta era talmente alta che era impossibile soddisfarla solo con il delivery. āUna cucina sola non bastava piùā, racconta Shaza. āTante persone ci chiedevano dove poter venire a mangiare. In questi anni, ci hanno conosciuto non solo tramite i nostri piatti, ma proprio fisicamente. Si ĆØ instaurato un bellissimo rapporto tra la clientela e i nostri ragazziā.
Il cibo ĆØ infatti solo un mezzo con cui far conoscere la Siria. La sua funzione principale ĆØ quella di aiutare chi scappa dal dramma. Hummustown ĆØ, anzitutto, una organizzazione no profit che ha saputo offrire supporto ai rifugiati siriani che chiedevano asilo in Italia, dandogli un lavoro e soprattutto una dignitĆ che la guerra gli aveva tolto. Shaza li ha accolti per provare a āoffrire una speranzaā. La crisi che vive il paese mediorientale ĆØ tuttāaltro che finita, ma col tempo ne sono nate altre ugualmente devastanti. Ć per questo che Hummustown ha deciso di accogliere chiunque.
Anche con lāapertura del nuovo ristorante, il concetto di integrazione rimane centrale. āSicuramente ci offre la possibilitĆ di dare più lavoro. A Roma cāĆØ una lunga lista di donne siriane, libanese, irachene, yemenite, palestinesi che aspettano unāopportunitĆ . Volevo dare al rifugiato un senso di famiglia. Quando arrivano, specie quelli nuovi, sono spaesati. Si domandano: chi potrĆ capirmi? Chi parla la mia lingua? Chi mi darĆ il cibo di casa? A mio modo di vedere, questo aspetto mancava e con Hummustown siamo riusciti a colmare la lacunaā.
Con il suo progetto Shaza voleva rendere le persone indipendenti, facendo al contempo conoscere la sua cultura dāorigine. E cāĆØ riuscita. āSiamo stati capaci di creare un punto dove lavoriamo e, allo stesso tempo abbiamo avvicinato i cittadini a una cultura lontana, ma che come tante altre arricchisce quella romanaā, prosegue. Con il nuovo ristorante ancor di più, visto che ĆØ incastonato in un quartiere multietnico. Per chi ĆØ giĆ andato al chiosco di Piazza della Repubblica, il menù tornerĆ familiare: Hummus, ovviamente, ma anche muttabal batata (patate, salsa di sesamo, yogurt, aglio), laban (yogurt, menta secca, cetriolo), yalangee (foglie di vite, riso, salsa di melograno), falafel e baklava (pasta filo, noci, pistacchio).
Tuttavia, come detto, il cibo ĆØ solo una parte di Hummustown. āRecentementeā, continua Shaza, āabbiamo organizzato una raccolta fondi per la Palestina, ospitando una cinquantina di disegni di un artista di Gaza. Li abbiamo stampati, esposti sul muro e poi una graffitista filippina che vive a Roma da cinque anni ci ha realizzato un murales per esprimere un messaggio di pace. Voglio che questo ristorante non diventi solo un luogo dove mangiare siriano, ma creare una casa per chi non ĆØ italianoā.
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