Oggi ho scoperto Benito al Bosco, in quel di Velletri. Ristorante sulla collina, in mezzo a un verde semplicemente salvifico nella cappa di calore dell’anticiclone africano, con muri letteralmente tappezzati di fotografie del fondatore con star del cinema e politici di svariate generazioni, susseguitesi da quando aprì nel 1966 il suo primo locale per poi arrivare nell’attuale località e crescere nel tempo, fino a diventare anche hotel.
Luogo di riferimento che Vittorio de Sica indicò a Ugo Tognazzi, tanto che quest’ultimo e la sua famiglia lo hanno eletto ad appendice della casa in cui il grande attore cremonese visse fino ai suoi ultimi giorni, nella stessa zona, Benito al Bosco è ormai da decenni un elemento di rilevanza internazionale per il nostro Paese: nelle ultime settimane, i suoi cuochi e i suoi camerieri hanno cucinato e servito per JD. Vance, Macron, Merz e Milei. Ma questo servizio per la Patria inizia sin dai tempi di Andreotti, come mi ricorda il signor Benito Morelli, 90 anni portati splendidamente, mentre presidia la cassa e, alludendo al Divo, dà un che di eterno alla storia e al ruolo di questo che è molto più di un ristorante.
Benito Morelli e Alberto Sordi
Ve ne parlo per due ragioni: come mai Benito al Bosco, nel mare dell’offerta ristorativa della Capitale, non solo ha guadagnato la ribalta come banqueter di grandi ricevimenti di Stato, ma è riuscito a mantenere questo ruolo nei decenni? E poi com’è possibile che qui si beva la Biancolilla 2022 di Antiche Cantine del Migliaccio a 40 euro, quando in enoteca non si trova a meno di 35?
Vedrete che ci sono alcuni elementi molto più sistemici di quanto si potrebbe immaginare in questa che, di primo acchito, sembra solo la classica storia di una famiglia di ristoratori tenace e accorta.
Ormai un anno e mezzo fa, anche qui su Gambero Rosso, raccontavo come secondo me non ci fosse una cucina italiana da candidare all’Unesco, perché troppe, addirittura subregionali, sono le cucine diversissime del nostro Paese. Ma individuavo in una vera a propria ossessione per l’ingrediente il vero collante gastronomico di tutti gli Italiani o per lo meno della loro stragrande maggioranza. Gli Italiani, spiegavo, non amano le preparazioni troppo elaborate, le salse che richiedono giorni e una miriade di ingredienti che vanno a fondersi in una magia complessiva. Sono diffidenti quando gli ingredienti sono più di quattro e soprattutto quando il piatto in cui sono combinati non permette (più) di riconoscerne l’individualità.
Ecco, la cucina di Benito al Bosco è il trionfo dell’ingrediente di qualità, innanzitutto rappresentata dal pesce pescato nel Tirreno e comprato, quotidianamente, all’asta del pescato di Anzio, che si svolge appena rientrati i pescherecci, ogni pomeriggio. Questi ingredienti sono trattati freschissimi (oltre al pesce, carni e salumi locali, formaggi laziali e non, funghi dei Castelli), senza interrompere nemmeno per un attimo la catena del freddo e con preparazioni che hanno la funzione minima (ma essenziale) di valorizzarne i pregi organolettici di partenza. Prova ne sia il calamaro agli agrumi che ho gustato, un piatto in cui la morbidezza perfetta di un calamaro che sembrava letteralmente appena sbarcato dal peschereccio era reso appena goloso dalla grigliatura e dalle lamelle di zest d’agrumi che ne punteggiavano la superficie.
In un contesto come quello dei grandi banchetti internazionali, dove le delegazioni numerose presentano l’insidia di un caleidoscopio di gusti e di culture, una cucina come questa è il segreto del successo, oltre che la sineddoche dell’italianità. Certo, la creatività, l’épater les bourgeois, dei tanti bravissimi chef epigoni della tradizione iniziata con Gualtiero Marchesi quasi cinquant’anni fa offrirebbe certamente motivi di stupore agli incliti e ai colti. Ma quanti palati meno pronti al salto nel vuoto lascerebbe delusi?
La cucina di Benito è una cucina da “Linea Italia in cucina”, avrebbe forse chiosato il compianto Franco Colombani: ingrediente sopra ogni cosa, stagionalità unica regola, piatti semplici genuini e valorizzati da una presentazione curata ma non artificiosa. Con questa cucina si rappresenta efficacemente il Paese (non semplicemente l’estro di questo o quel Maestro) e si soddisfa in modo statisticamente elevato la gran parte della platea degli astanti. Se ci aggiungiamo la prontezza di reazione (come quella volta in cui, dopo che i suoi responsabili diplomatici avevano approvato un menu tutto pesce, il re di Arabia Saudita decise che lui quella sera non mangiava pesce e fu prontamente accontentato) di cui sono narrate testimonianze nel bel libro firmato da Benito (La cucina delle stelle, Mondadori, 2023), ce n’è più che abbastanza per spiegare perché Benito al Bosco continua ad essere il riferimento per il banqueting istituzionale romano.
La carta dei vini di Benito al Bosco è un volume in A4 rilegato e spesso non meno di 7-8 cm. Un catalogo del bengodi, con 5 pagine dedicate solo ai vini bianchi del Lazio. Ma la cosa più stupefacente non è l’ampiezza. Quella si trova anche altrove, sebbene le chicche che Roberto – figlio di Benito, sommelier e anfitrione di squisita cortesia – ha scovato e raccolto nel mondo meritino ammirazione e anche una certa cupidigia. Il vero dato più unico che raro è la misura dei ricarichi. Da Benito al Bosco si beve a prezzi da enoteca. Avete capito bene. Calcolate un 5-10 euro al massimo in più di quanto spendereste per la stessa bottiglia in enoteca, dove naturalmente la comprate senza servizio, bicchiere e refrigerazione. Una scelta incredibile per chi, come me, da tempo ha iniziato un esame critico piuttosto impietoso nei confronti delle scelte dei ristoratori che con i ricarichi sulle bottiglie pensano di pagare i conti del locale e poi con i piatti fare l’utile. Altro il prezzo di un vino moltiplicato per un coefficiente, quando va in carta: fino a tre volte se è molto economico, scendendo a mano a mano che il prezzo sorgente si alza.
Da Benito l’impostazione è proprio quella contraria e la ragione mi viene spiegata con assoluta ed emozionante trasparenza da Sabrina, sorella di Roberto e, con Daniela, anch’ella sorella, seconda generazione al lavoro in questo luogo: «Noi non vogliamo guadagnare su qualcosa che non facciamo qui. Il cliente deve apprezzare e pagare come si deve per i piatti che escono dalla nostra cucina, tutti espressi. Il vino deve supportare l’esperienza, ma non è un nostro prodotto».
Risultato? Con 3500 etichette (avete capito bene, tremilacinquecento) Benito non ha sentito che in misura limitata, ai pranzi dei giorni feriali, l’effetto del decreto Salvini. Perché quest’ultimo, spiace ammetterlo ma dovrebbe far riflettere, ha rappresentato soprattutto la scusa perfetta per chi si era stancato di pagare un pasto in più quando usciva a cena e decideva di prendere una bottiglia di fascia semplicemente media. Giunti a Velletri, gli ospiti scoprono un’offerta amplissima di vini intorno ai venti euro, ma soprattutto le bottiglie più speciali ricaricate di una frazione del loro prezzo originario, non di un multiplo: questo, “magicamente”, rende estremamente meno efficace lo spauracchio agitato dal Capitano. Strano, vero? Forse è l’uovo di Colombo, ma bisogna farlo sapere.
Così si compie la magia: il ristorante che serve le sue specialità di pesce e di funghi dei boschi dei Castelli ai grandi del Mondo, democratizza il consumo del vino offrendo occasioni preziose di stare benissimo anche ai comuni mortali. Per di più, ci sembra, offrendo un eccellente motivo di ispirazione per i colleghi di tante parti d’Italia. Prosit, Benito, che la vita regali altri decenni di ottimo e prezioso lavoro a questa creatura che con tenacia, lei, e la signora Maria Rita, avete messo su alle porte di Roma.
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