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Interviste

La migliore chef al mondo: "Donne in cucina? Molti pregiudizi e ambiente pesante. Veniamo sottovalutate"

Chef Pam, thailandese di origini sino-australiane, è a capo di un ristorante di successo a Bangkok: "Cerco di creare ambienti in cui il personale si senta considerato e valorizzato"

  • 25 Maggio, 2025

Si chiama Pichaya Soontornyanakij ma tutti la conoscono con il nomignolo di Chef Pam. Nota al grande pubblico per le sue apparizioni televisive e alla platea dei gourmet per i suoi ristoranti, primo tra tutti Potong, oggi alla posizione numero 13 nella classifica dei migliori ristoranti asiatici. Cinque piani nel pieno della formicolante Chinatown di Bangkok, tra botteghe e bancarelle colme di abiti, gioielli d’oro, ma anche frutta e cibi di ogni tipo, di cui è appassionata. Chef Pam è da poco stata nominata Best Female chef 2025 per la classifica World’s 50 Best Restaurant. Conferma e rilancia, dunque, il riconoscimento ricevuto lo scorso anno, quando è stata nominata Miglior Chef donna in Asia. L’abbiamo raggiunta per una intervista a cuore aperto.

Partiamo dal premio che ha appena ricevuto: che significa essere nominata miglior chef donna al mondo?

È un riconoscimento profondamente personale e al tempo stesso collettivo: non riguarda solo me, ma tutta la comunità che rappresento. Essere nominata “The World’s Best Female Chef” va oltre il titolo in sé: è un premio che testimonia che le voci dell’Asia, e in particolare della Thailandia, stanno finalmente trovando ascolto su una scena globale.

Che intende?

La cucina thailandese è spesso stata raccontata con definizioni limitanti— street food, homestyle — ma questo premio dimostra che il nostro cibo può essere anche emozionale, filosofico, raffinato, innovativo. E afferma con forza che le storie che raccontiamo attraverso la cucina contano. Porto con me questo riconoscimento come un promemoria del lavoro che resta da fare e come stimolo per continuare a creare spazio per altri, soprattutto per le donne, in questo settore.

Secondo lei ha ancora senso un premio del genere in questo momento storico? 

Sì e no. Capisco le critiche: i premi di genere possono sembrare superati. Ma conosco anche il potere della rappresentazione. Se questo premio può ispirare una giovane donna a Bangkok, o in qualsiasi altra parte del mondo, a credere che la sua voce conti in cucina, allora ha ancora un valore. Finché non raggiungeremo una vera equità, la visibilità è fondamentale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di celebrare il talento, continuando però a lavorare per un cambiamento sistemico che renda un giorno superflui premi di questo tipo.

È più difficile per una donna emergere nella ristorazione?

Sì, lo è. Le difficoltà sono reali: dai pregiudizi inconsci alla mancanza di mentorship, fino agli ambienti di lavoro pensati e costruiti senza considerare le donne. Quando stavo ristrutturando Potong, avevo appena avuto mia figlia. Conciliare la nuova maternità con la costruzione di un ristorante è stato fisicamente ed emotivamente durissimo. Ma ce l’ho fatta. Quell’esperienza mi ha fatto capire quanto abbiamo bisogno di maggiore sostegno come donne: non solo visibilità, ma strutture che ci sostengano davvero. C’è stato un progresso, ma la strada è ancora lunga.

Quale è la sua esperienza di chef donna? 

Un’esperienza fatta di sfide e trasformazioni. Sono stata messa in discussione, sottovalutata, ho dovuto dimostrare il mio valore costantemente non solo come chef, ma anche come leader. Ma queste sfide mi hanno anche forgiata: mi hanno resa più attenta, intuitiva, determinata a costruire nei miei ristoranti una cultura del rispetto e dell’inclusione. Ho imparato che la forza non deve necessariamente essere rumorosa: può essere costante, emotiva, potente.

Ci può parlare del progetto Women For Women?

È un progetto che mi sta particolarmente a cuore. È una piattaforma che ho creato per sostenere e formare giovani chef donne in Thailandia, attraverso borse di studio e tirocini. Non ci focalizziamo solo sulle competenze tecniche, ma anche sulla leadership e sulla resilienza emotiva. L’obiettivo è far crescere una nuova generazione di donne che si sentano sicure non solo in cucina, ma della propria visione e voce.

Ha studiato e lavorato a New York. Quale è la differenza fondamentale nell’approccio al cibo tra Oriente e Occidente? 

In Occidente, soprattutto in realtà come Jean-Georges, dove mi sono formata, c’è una particolare attenzione alla struttura, alla precisione, alla tecnica. In Oriente, in particolare nella cucina thai-cinese, il sapore nasce spesso dall’istinto, dalla memoria, dal sapere tramandato. Quello che ho imparato è che i due approcci non si escludono: sono complementari. In Potong utilizzo tecniche occidentali per affinare le emozioni orientali. È così che trovo la mia voce come chef.

Lei è thailandese e viene da una famiglia per metà sino-australiana e per metà cinese. La contaminazione culturale ha contribuito alla definizione della sua cucina? 

Le mie radici culturali sono al centro di tutto ciò che creo. Crescere in una famiglia thai-cinese mi ha donato un amore profondo per i sapori decisi e stratificati: l’anice stellato, l’aglio, la salsa di soia, la pasta di fagioli fermentati erano la normalità per me. Ma la mia formazione in Occidente mi ha insegnato il valore del rigore e dell’attenzione al dettaglio. La mia cucina è una cucina thai-cinese progressiva: radicata nella memoria, plasmata dalla modernità, espressa attraverso l’emozione.

Foto: Dofskyground

Potong (foto sopra) era una farmacia di medicina tradizionale cinese della sua famiglia, questo ha avuto un peso nel definire il concept di Potong? 

Potong era l’erboristeria cinese del mio bisnonno. Ho percorso i suoi cinque piani insieme a mio nonno, prima che diventasse un ristorante, mi ha raccontato cosa rappresentava ciascun piano. Quel momento ha cambiato tutto. Non volevo che l’edificio venisse dimenticato. Così ho deciso di reinventarlo. Oggi è proprio lo spazio a ispirare il modo in cui accompagniamo gli ospiti nell’esperienza.

E la medicina cinese ha un peso nella sua cucina?

Pur non praticando la medicina tradizionale cinese, in un certo senso l’esperienza da Potong e la sua essenza le somigliano. La mia filosofia è radicata in tutto ciò che facciamo: l’attenzione all’equilibrio, ai cinque elementi, alla stagionalità e all’energia? In questo modo, lo spirito della medicina thai-cinese che abitava questo edificio continua a vivere nell’esperienza di Potong.

Perché è così importante vivere il ristorante anche nei vari spazi oltre che nei suoi piatti? 

Tutto è iniziato da ciò che ho provato quando mio nonno mi ha raccontato la storia dell’edificio, piano per piano. Credo che — sì, il gusto è fondamentale — ma l’esperienza va ben oltre: è memoria, consistenza, suoni e profumi. Potong è stato progettato come un’esperienza multisensoriale che si sviluppa su cinque piani del nostro edificio storico. Ogni piano racconta un capitolo della storia. Gli ospiti percorrono un viaggio attraverso il tempo, la cultura e l’emozione. Questo rende il pasto indimenticabile: non è solo una cena, è un’immersione nell’identità thai-cinese.

Ci può spiegare la vostra filosofia dei Cinque Elementi e dei Cinque Sensi? 

I cinque elementi – sale, acido, spezie, consistenza e reazione di Maillard – sono la spina dorsale di ogni piatto che creo. Ognuno di essi svolge un ruolo specifico: il sale dà struttura, l’acido acuisce, le spezie provocano, la consistenza dà vita e la Maillard collega la memoria attraverso il fuoco e la profondità. Ma questa è solo metà della storia. I cinque sensi – vista, suono, olfatto, gusto e tatto – trasformano un pasto in un momento. È così che progetto non solo un piatto, ma un’esperienza. Lo scricchiolio del legno secolare, la sensazione delle ceramiche fatte a mano, l’odore degli agrumi invecchiati o della soia fermentata: tutto questo fa parte della storia. Insieme, i Cinque Elementi e i Cinque Sensi formano un linguaggio. È così che parlo ai miei ospiti: attraverso il cibo, le sensazioni e i ricordi.

Dice spesso che da Potong siete come una grande famiglia: come si riesce ad arrivare a questo risultato con un team di 70 dipendenti?

Tutto parte dall’intenzione. Potong per me non è mai stato solo un ristorante: è sempre stato una casa. Per questo cerco di guidare il team così come sono stata cresciuta: con cura, onestà e coerenza. Molti membri della mia squadra sono con me sin dall’inizio. Investo profondamente nella mentorship e non guido “da lontano”: cucino con loro, ascolto, mi assicuro che tutto proceda bene. Celebriamo i successi, ma affrontiamo insieme anche gli errori. È questo che fa sentire Potong come una famiglia: non è perfetta, ma si basa sulla fiducia. Allo stesso tempo, c’è una struttura chiara nella leadership: ho sempre i miei “responsabili” ben presenti e collaboro da vicino su ogni aspetto cruciale.

In Italia si parla molto di turni e condizioni di lavoro nei ristoranti e della difficoltà di trovare personale. Come è da voi la situazione? 

È una sfida condivisa. La pandemia ha cambiato il rapporto delle persone con il lavoro, e questo non vale solo per l’Italia. Anche a Bangkok stiamo assistendo a un cambiamento: le persone si stanno chiedendo cosa vogliono davvero da questo mestiere. Per quanto mi riguarda, sto cercando di creare ambienti in cui il personale si senta considerato e valorizzato. Abbiamo modificato la struttura dei turni: prima del Covid si lavorava sei giorni su sette, oggi siamo a cinque; abbiamo introdotto iniziative legate al benessere e puntiamo molto sulla comunicazione. È un processo in divenire, ma se vuoi fidelizzare il talento, devi costruire luoghi in cui le persone possano crescere e sentirsi al sicuro.

Sappiamo che aprire un ristorante fine dining come il suo nella sua zona è stata una sfida. Come è andata?  

Assolutamente sì, è stata una scelta coraggiosa. Potong  si trova al 422 di Vanich 1 Road, nel cuore del distretto di Sampheng, storicamente noto come il mercato all’ingrosso di Bangkok, celebre per scarpe, tessuti e mercanzie di ogni tipo. Un’area di vicoli stretti e botteghe affollate, crocevia di commercianti da generazioni. Quando abbiamo deciso di aprire lì un ristorante fine dining, molti erano scettici. L’idea di un ristorante thai-cinese progressivo in quel contesto sembrava fuori luogo. Inoltre, la pandemia aveva colpito duramente la zona, mettendo in crisi molte attività storiche a causa della crescita del commercio online. Ed è stato proprio questo, per me, lo stimolo. Quell’edificio era l’antica erboristeria del mio bisnonno. Volevo ridargli vita, onorandone la memoria. Trasformarlo in Potong non significava solo aprire un ristorante, ma preservare un pezzo di eredità culturale e dimostrare che lì poteva nascere qualcosa di nuovo.

Avete una clientela di vicinato?

Oggi abbiamo una clientela mista: sia locale che internazionale. Molti bangkokiani stanno riscoprendo il fascino di Sampheng, e vederli accogliere questa fusione di tradizione e innovazione è una grande soddisfazione. È stato un percorso difficile ma pieno di conferme.

Ci può raccontare come si compone il suo progetto ristorativo?

Tutto è cominciato in modo molto semplice, solo io e mio marito, con un’idea e la convinzione di poter portare qualcosa di nuovo al settore dell’ospitalità in Thailandia. Così è nato The X Project. Non avevamo investitori o un grande piano strategico. Solo passione, voglia di sfidarci e dare un contributo autentico e coraggioso al settore che amiamo. Sin dall’inizio abbiamo immaginato The X Project non come una catena, ma come un collettivo creativo: ogni concept con la sua personalità, la sua anima, il suo perché. Oggi contiamo oltre 10 ristoranti e bar, più di 150 persone nel team, ma il nostro approccio è lo stesso: rimanere fedeli alla nostra voce e costruire con intenzione.

Come funziona?

Ogni progetto nasce da un’urgenza creativa diversa. Potong è l’espressione della mia identità thai-cinese, tra struttura, filosofia ed emozione. Opium Bar, al piano superiore, è plasmato sul concetto sperimentale di “Liquid Surreality”. Smoked (oggi con quattro sedi) riflette la mia ossessione per il fuoco e i sapori audaci. Tora Izakaya è il lato giocoso, conviviale. Copita, il nostro bar più recente, è un concentrato di energia e sapori decisi.

Poi c’è Khao Sarn Sek…

Sì, è l’ultima apertura: fine dining informale che celebra ingredienti sacri della cucina thai: riso, cocco, peperoncino, zucchero di palma, salsa di pesce. Un modo più libero e personale per esplorare la tradizione.

E in futuro?

E adesso, in arrivo c’è RA-U, la nostra moderna griglieria thailandese che aprirà a Siam il 1° luglio 2025, pronta a superare nuovi confini attraverso il fuoco, la fermentazione e un’intensità autentica. Detto questo, Potong resterà sempre Potong. È l’unica cucina dove ci sarò sempre. Non verrà mai replicato: vive nell’edificio di famiglia e lì rimarrà. Per questo stiamo già progettando una nuova ristrutturazione e un nuovo menu. È il mio lavoro di una vita.

Quanto conta il servizio e l’atmosfera in un ristorante, come dovrebbero essere secondo lei?

Per me il servizio non è una questione di formalità, ma di consapevolezza. Un grande servizio è quando il cliente si sente compreso senza dover chiedere. Da Potong il nostro team è formato per interpretare l’energia, non semplicemente per recitare un copione. L’atmosfera deve evolvere insieme all’esperienza: sorprendere, confortare, elevare. Ecco perché ogni piano di Potong è progettato con cura. Dal momento in cui entri, devi percepire che stai vivendo qualcosa di significativo, non solo mangiando.

La sua carriera sarebbe stata la stessa senza TV e come concilia la sua figura televisiva e quella di chef?

La TV ha ampliato la mia portata, ma non ha definito il mio percorso. Ho sempre amato cucinare, e ho sempre lavorato sodo in cucina, molto prima che arrivassero le telecamere. È la mia passione. Anche senza TV, sceglierei ogni giorno di stare in cucina. È lì che mi sento viva, presente, connessa a ciò che amo. Detto questo, la televisione mi ha dato una piattaforma per far conoscere la cucina thai a un pubblico più ampio. Mi permette di condividere non solo il mio lavoro, ma anche le storie della mia cultura, degli ingredienti, del mio team. Trovo l’equilibrio rimanendo radicata in ciò che conta davvero: i miei ristoranti. La TV non è mai la priorità: è uno strumento. Se riesce ad accendere la curiosità verso la cucina thai-cinese o a ispirare una nuova generazione di chef, allora vale la pena. Ma alla fine, le mie mani restano in cucina.

Sono pubblici diversi quelli a cui si rivolge o la clientela che arriva dal mondo della gastronomia e quella del pubblico televisivo sono le stesse?

Sono diversi — ma in parte si sovrappongono. Entrambi sono accomunati dall’interesse per il cibo, ma lo vivono in modo differente. Alcuni ospiti scoprono Potong o gli altri miei ristoranti perché mi hanno vista in TV, altri sono semplicemente appassionati di cucina. Dipende davvero dal ristorante e anche dallo spettacolo specifico: alcuni programmi attirano sicuramente più ospiti da quel pubblico. Detto questo, non do mai nulla per scontato. Ogni ristorante deve reggersi sulle proprie gambe. Qualcuno può venire per curiosità, ma torna solo se il cibo, l’esperienza e la storia lo colpiscono davvero. La maggior parte dei miei ospiti ama esplorare la cucina in modo profondo, non solo seguendo le mode. Sono grata di aver costruito un legame con tipi di pubblico molto diversi, ma mi ricordo sempre: deve parlare il lavoro.

Anatra di Potong chef Pam. foto gastrofilm

Parliamo della ristorazione a Bangkok, che è molto vivace. Come è la situazione attuale? 

Bangkok oggi è elettrica. C’è una nuova generazione di chef che non ha paura di esprimere la propria identità, di sfidare le narrazioni tradizionali, di esplorare le radici regionali.

Quali sono le tendenze da tenere d’occhio? 

Si va dai pop-up di fine dining nei vicoli ai concetti di street food ad alto tasso creativo. Il mood è: “perché no?”— e lo adoro. Credo che anche chef come Ton (Suoi Nusara e Le Du), tra i primi a portare la cucina thai nel mondo, stiano guidando questa evoluzione. Molti dei suoi ristoranti rappresentano il nuovo corso della cucina thai. C’è poi un crescente interesse per fermentazioni, sostenibilità e un’idea di lusso ridefinita, basata su ingredienti locali e rari, non importati.

Ma lei dove va a mangiare? 

Io amo la semplicità. Vado nei posti con l’anima. Rungrueang Pork Noodles è il mio comfort food: i loro noodles tom yum hanno equilibrio e nostalgia. Quando voglio sentirmi connessa agli ingredienti e all’energia del mercato, vado a Talad Thonburi. È essenziale, autentico e pieno di carattere. Adoro anche Sri Trat, che esalta la ricchezza della cucina dell’Est della Thailandia, piatti come il gaeng moo chamuang mi ricordano casa. E per qualcosa di più giocoso, vibrante e pieno di sapori thai, vado da Lawooi a Langsuan. È vivace, creativo, un posto dove bere qualcosa, divertirsi, e mangiare alla grande. Tutti questi luoghi condividono una cosa che per me conta moltissimo: cucinano con emozione. E si sente in ogni boccone.

C’è una ristorazione italiana? Lei la frequenta?

Assolutamente sì: adoro la cucina italiana. Anche la mia famiglia la ama. Ai thailandesi piace tantissimo. C’è qualcosa nel calore, nell’equilibrio, nella semplicità che ci tocca profondamente. Il mio preferito è sicuramente Appia. È uno dei migliori ristoranti italiani di Bangkok, uno dei nostri punti fissi. Ci andiamo spesso. È accogliente, costante nella qualità, pieno di carattere. Ogni piatto sembra fatto con il cuore. Poi c’è Peppina, una certezza, sempre eccellente. È il posto ideale per una pizza classica senza sensi di colpa. Le pizze, l’atmosfera, l’energia—è esattamente ciò che dovrebbe essere la cucina italiana: generosa, vibrante, onesta.

L’Italia è stata scossa dall’annuncio dei dazi di Trump. In Thailandia come è la situazione? 

Sì, la Thailandia sta sentendo l’impatto di questi nuovi dazi statunitensi. Il recente aumento del 36% sulle importazioni thailandesi è un cambiamento importante. Anche se l’obiettivo della politica è riequilibrare il commercio e favorire la produzione interna americana, crea grandi difficoltà per economie orientate all’export come la nostra. La Federazione delle Industrie Thailandesi ha già avvertito: se i dazi rimangono tali, la crescita del PIL potrebbe scendere drasticamente — alcune stime parlano di un calo dello 0,7% — e le perdite per l’export potrebbero superare i 43 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Non è una piccola scossa. È uno tsunami.

Quanto vi sentite coinvolti?

Anche se può sembrare lontano dal mio lavoro, ho imparato che nessun settore vive isolato. I ristoranti dipendono da tutto: agricoltura locale, logistica internazionale. I prezzi cambiano, la disponibilità pure. Anche la percezione del lusso si modifica in base all’andamento globale.

Vi preoccupa?

Sì, siamo colpiti. Ma ci stiamo adattando perché è questo che fanno gli chef: prendiamo quello che abbiamo e lo trasformiamo in qualcosa che abbia senso.

Dunque come reagite?

In risposta, abbiamo puntato ancora di più sulla filiera locale, non solo per filosofia, ma per strategia. Ho sempre creduto nella forza della cucina thai radicata nel nostro territorio. Queste sfide rafforzano quella convinzione. Ci spingono a essere più autosufficienti, più attenti, più resilienti.

Quale è stato l’insegnamento più importante nella sua carriera?

“Mai arrendersi. Non arrenderti mai. Se hai un sogno, non ti fermi finché non l’hai raggiunto, qualunque cosa accada”. È la verità che ho vissuto sulla mia pelle. La lezione più importante della mia carriera è stata quella di andare avanti, soprattutto nei momenti più duri. Le persone vedono il successo, la luce dei riflettori, i premi, ma quelli sono solo la punta dell’iceberg. Quello che non vedono è la base: l’esaurimento, i sacrifici, i dubbi, i fallimenti, i centinaia di momenti in cui avrei potuto mollare ma non l’ho fatto. A volte non vedi la luce, a volte nessuno applaude. Ma la luce arriva, basta continuare a esserci. Continuare a credere in quello che fai. Continuare a fare ciò che ami. Un piatto, un servizio, un gesto sincero alla volta. Ogni svolta che ho avuto è arrivata dopo giorni in cui volevo mollare. Quindi lo dico per esperienza: se per te conta, non fermarti mai. Dietro ogni successo c’è una montagna di lavoro invisibile. Ma tu lo sai. E basta quello per continuare a crescere.

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