Il fine dining non è un mondo per giovani, l’abbiamo sentito dire tante volte: è costoso, a volte noioso, tronfio, dal lato del cliente. E insostenibile, nei tempi e nei modi, nel lavoro in cucina, svalutato nel lavoro in sala. Per questo eravamo assai curiose di capire come la vedeva colui che è stato nominato, 25enne, Talent Chef of the Year, il premio per i professionisti under 30 di Grande Cucina. Un giovane vero insomma, mica quei quarantenni che ancora se la giocano da adolescenti. Abbiamo dunque raggiunto Gabriel Collazzo nella magnifica, unica, difficile Venezia al Vero, ristorante gourmet dell’Hotel Cà di Dio, dove da gennaio è il nuovo Executive Chef che coordina l’intera offerta gastronomica.
Collazzo non viene da una famiglia di ristoratori, anche se il fratello, più grande di 14 anni, ha una trattoria a Valberg, sulle Alpi francesi. «È stata lì la mia primissima esperienza lavorativa – ci racconta -. Era il classico ristorante con poco personale e quindi ti ritrovi a fare anche 16 ore al giorno. A 14 anni è un mondo nuovo, anche bello ma pesante. Ancora oggi mio fratello lo fa e tutti i giorni lo chiamo e gli dico “Smetti, ma basta, hai due bambine”, quindi anche lui piano piano sta incominciando a capire che forse il rapporto umano e con la famiglia è più importante che farsi intere giornate a spaccarsi le ossa».
«Dopo due anni abbiamo litigato pesantemente e non ci siamo parlati per un lungo periodo. Io non trovavo giusto lavorare così tanto e lui mi diceva “Vedrai che ti aiuterà, un domani sarai molto più forte”. Però in quel momento mi sentivo molto stanco, a volte esausto e con la voglia anche di dire “Ma basta con la cucina”». La passione però è più forte. Seguono esperienze in stellati francesi, dal 3 stelle Maison Lameloise con Eric Pras, Nama con lo Chef nipponico Yuki Mamizuka e poi al Santa Elisabetta con Rocco De Santis, 2 stelle a Firenze.
Alla fine le ossa se l’è fatte, e belle solide. «È vero è stato duro, ma oggi a 25 anni tengo testa a 16 persone in cucina e quattro alla plonge (tutti giovanissimi, ndr). Vuol dire anche sapere come funziona la cucina, conoscere i momenti caldi come quelli di bassa stagione, gestire gli ordini in un hotel con più cucine: abbiamo il bar, il bistrot, il fine dining, il room service».
Reduce da un viaggio in Giappone con la fidanzata, naturopata francese folgorata dal mestiere in cucina (lavorano insieme), Collazzo ragiona di Paesi e territori con una competenza da consumato globetrotter. «Il viaggio in Giappone ti apre la mente. Mi ha meravigliato l’educazione, il rispetto non solo per la materia prima, ma per l’essere umano».
Ogni esperienza gli ha dato qualcosa di diverso. «Da Firenze ho portato via la voglia dello chef Rocco De Santi di mettersi in gioco, di continuare a lavorare su uno stesso piatto perché si modifica nel tempo, non esiste mai una monotonia. In Francia ti insegnano la tecnica, il rispetto per l’ingrediente, la precisione. Il Giappone mi ha aperto la mente sul dettaglio, ma anche sul rapporto umano con il cliente; anche se hanno un servizio molto freddo, ti davano una leggera spiegazione e poi uscivano, si inchinavano come per dirti “Grazie di essere con noi”. In quei pochi gesti si crea un rapporto, una storia. È un dettaglio a volte, ma è proprio quel dettaglio che ti fa sentire una persona importante e spesso penso che nella nostra ristorazione manchi la voglia di creare un legame con i clienti, di creare un rapporto che si possa mantenere nel tempo. Saranno magari questi piccoli dettagli che proverò a portare anche nella mia cucina».
Sei toscano, ti sei formato molto in Francia con chef francesi e giapponesi. Ora sei a Venezia. Per te cosa significa territorio? «Non ho un territorio dove mi sento strettamente a casa. La mia famiglia è lucana, sono nato in Toscana ma non mi sento al 100% toscano. Anche se San Miniato, il paese da dove vengo, è uno dei luoghi che porterei in ogni piatto: il tartufo, i porcini della Garfagnana. Troviamo tanti di quei prodotti in Toscana che sarebbe facile definirla un territorio madre, però la visione che ho è quella di portare un po’ di Francia, di Giappone, di Toscana e sicuramente di Laguna nei miei piatti. Il territorio è molto vasto per me, il mio territorio è il mondo. Sono una persona molto aperta e ancora oggi ho voglia di continuare a crescere e di vivere nuove esperienze in altri posti».
Ma questo fine dining, insomma, è in crisi? «Non penso ci sia una crisi, piuttosto oggi il cliente è più informato, ha una coscienza del prodotto molto più elevata. Materie prime che erano suo appannaggio oggi si trovano in ristoranti meno gourmet. Il cliente conosce molto più l’offerta gastronomica e si concede quel fine dining che gli fa vivere un’esperienza vera, che dà un’emozione, non una semplice cena. Il ristorante che penso possa funzionare è quello che riuscirà ad avere un rapporto umano con il cliente, dove lo chef riesca a dare la propria impronta, la propria immagine. E dove il cliente si diverte. Occorre modernizzare un po’ la cucina, riscrivere gli schemi, perché la vecchia cucina oramai è stata scritta, ci sono miliardi di libri, ma bisogna anche provare a cambiare qualcosa, il cliente è un po’ stanco della monotonia».
Secondo Collazzo la cena va costruita anche sul cliente. «Nella nuova cucina il cliente è parte dell’esperienza. La cucina stessa non deve più ruotare sullo chef, la brigata o la sala, ma deve essere un rapporto tra cliente, cameriere e chef. Io posso fare le migliori ricette, ma se il cameriere non dà quell’emozione che vorrei trasmettere al piatto, alla fine è un gioco che abbiamo fatto invano».
Anche perché i clienti non sono tutti uguali. Al Vero c’è un pubblico molto internazionale, molti giovani tra i 25-30 anni. Tutti con palati e gusti diversi. «Il francese ha un palato molto sottile, gioca sugli equilibri dei sapori. Cerca la perfezione e mi piace perché mi stimola a lavorare sulle mie ricette. Anzi, spesso il gioco che faccio a fare ai ragazzi è anche questo. Loro sanno che c’è uno standard di cotture in cucina, però dipende anche dal cliente da servire: se viene un francese cuocio un minuto in meno, se è un americano un minuto in più. Con un asiatico cerco di cuocere senza sale. Anche in Francia era questo lo standard».
E gli italiani? «Eh l’italiano è il gioco più difficile. È il cliente più ostile. È difficile davvero relazionarcisi. Il palato italiano gioca molto di sapidità, tantissimo acido. Tendiamo all’amaro, ma poi preferiamo il dolce». Proprio per questo la carta dei dolci ne ha quattro: uno un po’ più zuccherato, uno più sul salato, uno vegano e uno che vira sull’acido. «Quando entra il cliente so già più o meno quale dolce prenderà. L’americano andrà sul dolce, francesi ed europei sul salato. Gli asiatici vanno sempre sul più acido». Quindi un piatto è come un vestito cucito addosso. «Il futuro sarà anche nell’adattarsi più al cliente, essere più aperti».
Il tuo rapporto con Venezia com’è? «Di un amore e odio perché è una città molto molto difficile. Quando c’è tanto turismo solo a camminare ti viene rabbia, quando rientri a casa la sera non c’è nessuno, ti perdi nei vicoli e riscopri che è una città bellissima, unica ma ostica, a partire dalla logistica dei fornitori». Al Vero c’è anche un menu vegetariano e vegano all’occorrenza, con un solo piatto con latticini che possono essere sostituiti. Cambia di ogni tre mesi, per dare importanza a ogni vegetale di stagione. «Non possiamo più permetterci di dire che l’unica parte importante di un pasto sia la proteina animale» dice lo chef.
Il tuo approccio alla cucina? «In ogni piatto lavoro su un massimo di due o tre ingredienti e cerco di lavorarli in più forme. Al momento in carta abbiamo ancora la barbabietola, la rossa, la gialla e la rosa e bianca. Facciamo varie cotture e tecniche di preparazione, dalla marinata al sottovuoto, al vapore, all’affumicato. Abbiamo sette otto tipi di tecniche e voglio dare importanza a quell’ingrediente, è lui che padroneggia il piatto e il sapore. Ma ecco, dare importanza a un vegetale vuol dire dare importanza al piatto, cercare di dare un’identità propria, di trasformare quel semplice vegetale in un elemento principale. Per lavorare un vegetale e renderlo al 100% ci vogliono tecnica, precisione, dettaglio e attenzione. Per questo sono molto molto contento quando esce un menù vegetariano e quando la gente lo prende anche se non è vegetariana, perché vuol dire che ho trasmesso veramente l’emozione di quel vegetale».
Il menu vegetariano è ancora una sfida, in Italia è difficile. «C’è forse meno richiesta, perché il cliente non è ancora istruito a determinati gusti. Io vengo da una famiglia di agricoltori, mio padre prima lavorava in conceria e tutto però ruotava intorno al terreno, mangiavamo ciò che ci dava la terra, dall’olio delle piante di ulivi al vino delle vigne, i vegetali erano solo quelli che coltivavamo, la carne era solo quella che avevano i miei zii, dal vitello al maiale, e per me questo era un elemento vero. Quando poi compri il pollo e ti accorgi che non ha più il sapore di pollo, allora devi incominciare veramente a riflettere sul mondo del vegetale. È questo che cerco di trasmettere alle persone al ristorante».
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