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“Cucinare è portare fuori chi sei” Jeremy Chan alla 50 Best: anatomia del sapore come atto emotivo e irripetibile

Dalla ribellione alle etichette al rifiuto di assaggiare i propri piatti: lo chef di Ikoyi racconta una cucina che nasce dalla memoria, guidata da emozioni, frammenti biografici e visioni interiori

  • 19 Giugno, 2025

Non ha mai assaggiato un piatto nel suo ristorante. Non ne ha mai mangiato uno. E mai lo farà. Jeremy Chan, mente dietro Ikoyi – uno dei luoghi più radicali della cucina contemporanea – lo ha detto sul palco della 50 Best a Torino con la naturalezza di chi ha fatto pace con la contraddizione. Per lui, mangiare a Ikoyi significherebbe mangiare una parte di sé. E quel sé, oggi, è un mondo interiore così denso da poter alimentare da solo una costellazione di sapori.

La memoria come ingrediente

La sua è una cucina che non parte dagli ingredienti, ma dalla memoria. Non da una ricetta, ma da un’esplosione sensoriale. Flavour, per Chan, è una parola troppo stretta per contenere ciò che intende: è il risultato emotivo, culturale e fisico di un momento irripetibile. È un riflesso dell’anima.
All’inizio, racconta, tutti volevano etichettarlo. West African. Fusion. Speziato. E lui si è ribellato, cucinando d’istinto, scavando dentro. Ha messo nel piatto un mondo che nessuna geografia può mappare: le fiammate di un hot pot mangiato da bambino a Hong Kong, la carne velata di tartufo in un bistellato parigino, il fuoco del pepper soup in Nigeria. O anche il silenzio struggente di un’eclissi. Ikoyi non rappresenta un luogo. È una trasfusione. Da dentro a fuori.

«Il sapore è lo stato in cui mi trovo», ha detto. E per questo ogni giorno il menu cambia. Anche solo di un grammo. Perché la vita cambia. Perché il pomodoro cambia. Perché ogni animale cresce a modo suo, e un manzo non sarà mai uguale all’altro, anche se nutrito allo stesso modo. Chan lo sa, e lo abbraccia: «Cucinare è un’arte indomabile, a differenza di musica e cinema, dove puoi controllare ogni variabile. La cucina, invece, dipende dalla vita».

In un passaggio illuminante, ha demolito il culto dell’ingrediente puro come forma di minimalismo superiore. «Servire una fragola così com’è, un’ostrica al naturale… sembra una forma di purezza, ma è un’esclusione. È un modo per evitare il rischio». Il suo minimalismo, invece, è denso, compresso, stratificato. Un colpo secco di zucchina affilata immersa in riduzione di spezie, o un boccone di calamaro che sa di oceano profondo. È rigore, ma anche combustione.

Le spezie, poi, non sono solo un linguaggio. Sono la lingua madre. Il modo in cui Jeremy Chan sente il mondo. L’effetto anestetico, il bruciore, la gioia, la malinconia. «Senza spezie, il cibo non mi interessa. Il piccante è cultura, storia, trasmissione di miti e segreti».

L’anima, non il consenso

Eppure, lo dice con amarezza, il mondo tende al contrario: alla somiglianza, all’addomesticamento. Cucine, canzoni, film che devono piacere a tutti, non disturbare, non esporsi. Il risultato? Si perde l’anima. «Quando cominci a pensare a cosa vogliono gli altri prima di ascoltare te stesso, muore la possibilità di dire qualcosa di vero».

Jeremy Chan ha chiuso servendo un piatto di manzo Hereford frollato cinque mesi, condito con foglie di ribes nero e peperoncini fermentati nel Sussex. «Quello che cuciniamo è una sinfonia di vite: la mia, quella delle piante, degli animali e di chi li coltiva. Non possiamo controllare tutto. Ma possiamo scegliere di essere sinceri».

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