È a Torino Massimo Bottura per i 50Best Restaurants. Lui che con l’Osteria Francescana è stato al primo posto nella classifica, nel 2016 e nel 2018, e ora è nella lista “Best of the Best” insieme a locali di culto come El Bulli, Noma, Geranium, il Mirazur di Mauro Colagreco. Lo abbiamo incontrato a Villa Sassi, indirizzo fascinoso nel verde della prima collina, trasformata per l’occasione in «Villa Mare» del brand Gin Mare, per un evento di drink e di gusto, con i bar tender del Connaught di Londra Agostino Perrone e Giorgio Bargiani che hanno creato quattro cocktail – Oops I dropped the olive, con gin Mare, vermouth, sherry, Mediterranean Collins, Balsamic&Gin, con vermouth e cardamomo, Paloma a Capri, con Gin e Campari – che Bottura ha abbinato ai suoi spaghetti ai tortellini, il Parmigiano con il suo aceto balsamico e altri sfizi. Spiegando a tutti che il gin è convivialità, dovunque nel mondo (e lui racconta di proporre un gin-cocktail speciale con Martini, Chateau d’Yquem e albicocca).
In attesa della sua cena per il il megaparty dopo la cerimonia di premiazione al Lingotto, Massimo Bottura ha anticipato che preparerà tortellini, hamburger, e come dolce un tiramisu “ che si crede un bunet”, per un rimando preciso alla tradizione e a Torino
Parliamo proprio di tradizione allora: lei ha dichiarato che “la tradizione deve essere un trampolino, e la cultura è alla base del cuoco del futuro”. Qui a Torino vede questo?
Sì, lo vedo. Lo sento. Lo tocco ogni volta che cammino per i mercati, ogni volta che assaggio una toma stagionata o un plin, un bollito con le sue salse. Torino è una città che ha la grazia della memoria e l’energia della trasformazione. È sabauda ma sperimentale, elegante ma popolare. E questo doppio registro è proprio ciò che rende la tradizione un trampolino, e non una gabbia. Eduardo aveva ragione – (il nuovo suo menù si chiama Miseria e Nobiltà, da Eduardo Scarpetta) – la tradizione non va conservata sotto vetro, ma abitata, studiata, amata e poi superata. Solo chi la conosce in profondità può usarla come slancio per saltare più in alto. E oggi, a Torino, vedo giovani cuochi, artigiani, contadini e produttori che non hanno paura di fare questo salto. C’è una nuova generazione che ha capito che il futuro della cucina italiana non si costruisce copiando il passato, ma traducendolo in un nuovo linguaggio. Un linguaggio che parte dalla cultura, quella vera, fatta di libri, paesaggi, ingredienti, storie familiari e viaggi e che arriva fino al piatto. Il cuoco del futuro sarà, prima di tutto, un uomo o una donna di cultura. Un traduttore sensibile tra la memoria e l’innovazione. E Torino, con la sua storia di avanguardia, con la sua anima operaia e visionaria, è un luogo perfetto per far nascere questo tipo di cuochi.
Sappiamo che non aprirà a Torino un ristorante, ma piuttosto sta pensando ad aprire una struttura di Food for Soul, ha già individuato dove?
Non cerchiamo luoghi perfetti, come ci ha consigliato Papa Francesco dieci anni fa, “portate la luce nelle periferie”. Noi cerchiamo luoghi che hanno bisogno di essere ascoltati. E Torino, con la sua storia industriale e la sua forza sociale, ha tante ferite che possono diventare porte d’ingresso per qualcosa di nuovo. Abbiamo dialogato con diverse realtà locali, istituzioni e associazioni del territorio per capire dove un Refettorio possa davvero fare la differenza. Food for Soul non apre semplicemente “strutture”: semina progetti culturali, sociali e gastronomici che nascono attorno a un’idea semplice ma radicale, la bellezza è un diritto di tutti. Vogliamo creare un luogo dove l’eccedenza alimentare si trasformi in accoglienza, dove la fragilità trovi dignità, dove arte, cucina e solidarietà si incontrino ogni giorno. Quindi no, non stiamo aprendo un ristorante a Torino. e forse sì un Refettorio. Dove sarà? Forse in un teatro abbandonato, forse in una vecchia scuola, o forse in un luogo che oggi nessuno guarda. Ma sarà lì, dove non lo aspetti, che nascerà qualcosa di straordinario.
È ancora possibile oggi “guardare il mondo con gli occhi di un bambino, da sotto il tavolo e a testa in giù”?
È non solo possibile. È necessario. È da lì, da sotto il tavolo, che ho imparato tutto. A vedere le mani impastare, a sentire le voci diventare suoni, a riconoscere i profumi prima ancora dei sapori. Guardare il mondo a testa in giù ti insegna che esiste sempre un altro punto di vista, che la realtà non è mai una sola, che la meraviglia è una questione di sguardo. Picasso diceva: disegnavo come Raffaello che avevo tredici anni e per tutta la vita ho cercato di dipingere come un bambino. Nel rumore del mondo adulto, pieno di aspettative e competizioni, tornare a quello sguardo infantile è un atto rivoluzionario. Significa ricordarsi perché abbiamo iniziato: per gioco, per amore, per stupore. È quello lo sguardo che ti salva dalla routine, che ti fa ancora emozionare davanti a una pasta mal fatta, perché magari lì dentro c’è un’idea geniale che aspetta solo di essere capita. Io, ogni tanto, mi ci metto ancora sotto al tavolo. Non fisicamente, magari. Ma mentalmente sì. Per capovolgere le cose, per smontarle, per tornare a credere che anche un errore possa essere l’inizio di qualcosa di meraviglioso.
Lei ha dichiarato che Torino è un ponte perfetto tra la memoria e l’innovazione. Il Piemonte è la terra dove è nato Slow Food. Torino è la città dei santi sociali. Può partire da qui il progetto di una una ristorazione più giusta, più inclusiva, più sostenibile? che sappia lasciare un’impronta culturale e sociale?
Torino ha dentro di sé tutto ciò che serve per essere il cuore pulsante di una nuova idea di ristorazione. È una città che ha sempre saputo coniugare pensiero e azione, spirito critico e senso pratico. Qui sono nate rivoluzioni silenziose: il cooperativismo, l’impegno sociale, l’educazione popolare. Non è un caso che da queste terre sia partito anche il movimento Slow Food, che ha insegnato al mondo che mangiare è un atto agricolo, politico, culturale. Io credo che oggi più che mai ci sia bisogno di una ristorazione che non viva solo per il successo, ma che sia capace di restituire senso. Un piatto può essere buono, bellissimo, tecnicamente perfetto… ma se non porta con sé un messaggio, una responsabilità, un gesto d’amore verso il territorio e le persone, resta incompiuto. Torino è la città dei santi sociali, ma anche degli operai, degli artisti, degli intellettuali che hanno sognato un’Italia diversa. È stata anche la città di Bob Noto. di Giorgio Grigliatti. È la città di Carlin Petrini e Enzo Vizzari. È una città che sa ascoltare le fragilità senza retorica. Da qui può nascere un nuovo modello: una ristorazione che metta al centro la comunità, che accolga la diversità, che sia scuola di libertà e bellezza. Non serve un nuovo sistema. Serve una nuova coscienza. E forse sì, può partire proprio da qui. Dove le idee hanno sempre trovato casa.
50 Best per la prima volta in Italia: cosa avverrà dopo, o meglio cosa si aspetta arrivi dopo?
Portare i 50 Best in Italia non è solo un premio o una vetrina. È una chiamata. Una possibilità di raccontare chi siamo oggi, ma soprattutto di chiederci chi vogliamo diventare domani. Quello che mi auguro venga dopo è un’assunzione collettiva di responsabilità. Non verso una classifica, ma verso il valore profondo della nostra cultura gastronomica. Mi piacerebbe che questo evento fosse il punto di partenza per costruire un sistema più forte, più inclusivo, più connesso. Dove chef, produttori, istituzioni e comunità lavorano insieme per trasformare la ristorazione italiana in un motore culturale e sociale, non solo economico. Mi aspetto che si apra un nuovo spazio di dialogo tra generazioni. Che si parli non solo di tecnica, ma di idee. Non solo di esperienze da vendere, ma di esperienze da condividere. E poi, concretamente, spero che arrivino investimenti intelligenti: nella formazione, nell’agricoltura, nell’educazione alimentare. Che si capisca, finalmente, che il valore della cucina italiana non è nei riflettori, ma nelle radici. E che da quelle radici possiamo ancora far nascere qualcosa di profondamente nuovo. Il 50 Best in Italia non deve essere un punto d’arrivo. Deve essere un inizio. Un’occasione per dire al mondo: siamo pronti a raccontare la nostra cucina con una voce nuova, consapevole, e piena di futuro.
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