C’è chi li chiama ramoracci, chi ramuracce, ramoracce o ramolacci. Ad ogni modo, è un’erba selvatica dalle mille identità che appartiene alla famiglia delle crocifere. Noto anche come ravanello selvatico, ha un sapore che ricorda il broccoletto, ma più delicato, e dimensioni simili alla cicoria. Se il termine raphanus, nome scientifico della pianta, evoca la radice della pianta, le foglie sono da sempre l’ingrediente chiave della tradizione culinaria. Cresce spontaneo nei campi di buona parte del Lazio e soprattutto nella zona dei Castelli Romani, dove è diventato un protagonista della cucina locale.
Tortino di ramoracce del ristorante il Torchio di Frascati
Le ramoracce, il cui nome scientifico completo è Raphanus raphanistrum, appartengono alla famiglia delle crocifere (come il cavolfiore, i cavoletti di Bruxelles, le cime di rapa, il ravanello, la rucola e molti altri). Nota in italiano comune come ravanello selvatico, per il suo legame con la pianta coltivata, questa erba veniva già utilizzata nell’antichità. Gli antichi romani apprezzavano le sue radici, ritenute afrodisiache, ma disprezzavano le foglie, considerate un cibus illiberalis, cioè un cibo ignobile, come scriveva Plinio il Vecchio. Nonostante il giudizio severo di Plinio, la cucina contadina ha saputo valorizzare proprio quelle foglie, gustose e nutrienti. Nel Cinquecento, Pietro Andrea Mattioli, celebre medico ed erborista, ne elogiava le qualità alimentari e terapeutiche: ricche di sodio, potassio, ferro, calcio, fosforo e vitamine (A, B, C ed E), le ramoracce erano utilizzate come rimedio contro insonnia, spasmi e dolori.
Un tempo cibo povero, le ramoracce erano apprezzate per la loro resistenza e abbondanza: crescono spontaneamente nei terreni incolti e possono essere raccolte durante tutto l’anno, anche in inverno, poiché resistono al gelo. Ancora oggi, i mercati locali dei Castelli Romani offrono queste erbe selvatiche a prezzi accessibili, ma trovarle nei supermercati è raro, se non impossibile. Negli ultimi anni, chef e ristoratori hanno riportato le ramoracce sulle tavole, facendole conoscere anche ai turisti. Dal gusto che ricorda i broccoletti, ma più delicato, le ramoracce sono un ingrediente versatile.
Patate e ramoracce del ristorante Zarazà di Frascati
Consumate crude, in insalata, o cotte, trovano spazio in ricette tradizionali come la frittata di patate e ramoracci di Rocca Priora, che si distingue per l’assenza di uova, sostituite da una morbida purea di patate o la zuppa di ramoracci con cavoletti neri di Genzano. A Velletri, invece, si preparano le ramuracce co’ a pizzetta, una sorta di focaccia semplice farcita con ramoracci ripassati in padella con aglio, olio e peperoncino. Oltre alla tradizione, le ramoracce si prestano anche a molte altre preparazioni: fritte in pastella come i fiori di zucca, trasformate in pesto per condire la pasta, o abbinate a carne e pesce in ricette moderne che celebrano il loro gusto delicato e persistente. E anche se Plinio il Vecchio – forse – si ricrederebbe, i cuochi e le cuoche (ma anche gli abitanti e i turisti) dei Castelli Romani non hanno dubbi: i ramoracci meritano un posto d’onore sulle tavole del Lazio.
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