José Andrés arriva negli Stati Uniti con una valigia piccola e una grande ambizione. Potrebbe essere una storia come tante, la solita favola dell’emigrato caparbio. E invece no. Perché Andrés non si limita a conquistare le cucine più importanti d’oltreoceano: le smonta, le ridisegna, poi le porta dove nessuno ha mai pensato di mettere un fornello. E mentre tutti lo celebrano per le sue stelle, lui si preoccupa delle ombre: quelle delle tende improvvisate dopo un uragano, dei blackout nei campi profughi, del buio della fame. Nell’epoca in cui la cucina è spesso spettacolo, Andrés non cerca i riflettori, li accende su chi mangia. E su chi non può farlo.
Non è un cuoco eroe, e non cerca di esserlo. È piuttosto un uomo che non ha mai dimenticato il gesto iniziale della cucina: preparare un piatto per qualcuno. Da lì parte tutto. Da lì continua. La sua è una cucina che sfugge alle definizioni. Può essere molecolare, tradizionale, comfort o emergenziale. Può servire una tavola di degustazione a Washington o una fila silenziosa di profughi a Kharkiv. Ma resta sempre lo stesso gesto: dare qualcosa di caldo, fatto con cura, a chi ne ha bisogno. E proprio in questo sta la radicalità della sua figura: nel riportare il cibo alla sua funzione primigenia, senza rinunciare alla complessità della gastronomia contemporanea.
Nato nelle Asturie nel 1969, cresce tra il mare e i boschi. A quindici anni ha già deciso che il suo mondo sarà fatto di padelle, ma anche di letture e osservazione. La sua cucina nasce con due gambe: la tecnica e l’intuizione. In Catalogna, tra i banchi della scuola alberghiera, capisce che non è sufficiente imparare a cucinare: bisogna capire come funziona ciò che si cucina. L’incontro con Ferran Adrià a El Bulli lo conferma. Non si tratta solo di rompere le regole, ma di riscrivere la grammatica stessa della gastronomia. Eppure, quel periodo al fianco di Adrià, che per molti è un punto d’arrivo, per lui è solo l’inizio. Dopo tre anni nel laboratorio più iconoclasta della ristorazione mondiale, prende un biglietto per New York. Ha 21 anni e 50 dollari.
A Washington, nel 1993, José Andrés apre la cucina di Jaleo. Lì porta una Spagna che l’America non conosceva: non quella folkloristica da cartolina, ma quella vera, fatta di piccoli piatti da condividere, sapori netti, convivialità rumorosa. Inventa il concetto di minibar gastronomico, trasforma il suo locale in una sorta di esperimento permanente e inaugura una carriera da imprenditore gastronomico con più di 30 ristoranti in America, da Los Angeles a Las Vegas. Ma sarebbe un errore considerarlo semplicemente un cuoco di successo. José Andrés ha sempre cucinato anche per dire qualcosa. E quando le parole non bastano, cucina per cambiare qualcosa.
Haiti, 2010. Un terremoto devasta la capitale. Andrés parte. Non con le telecamere, ma con un coltello e un’idea: nessuno dovrebbe morire anche di fame dopo essere sopravvissuto al disastro. Così nasce World Central Kitchen (WCK), una ONG con una missione precisa: essere la prima a intervenire in caso di crisi, offrendo cibo caldo. Non ai piani alti della diplomazia, ma lì dove le strade sono ancora piene di detriti. WCK arriva dovunque: Uganda, Filippine, Mozambico, Porto Rico, Ucraina, Gaza. Si muove veloce, si organizza in ore, non in settimane. Non distribuisce razioni liofilizzate, ma cucina. Perché secondo Andrés il cibo è un diritto, non una concessione. Non serve solo a nutrire, ma a restituire dignità.
Nel 2015, Barack Obama lo insignisce della National Humanities Medal. È un riconoscimento raro per uno chef. Quando nel 2016 rifiuta di aprire un ristorante all’interno del Trump International Hotel, lo fa per una questione di coerenza. Le dichiarazioni di Trump contro i migranti sono incompatibili con la sua visione del cibo come strumento di unione. Ne nasce una battaglia legale, ma per Andrés il valore morale vale più dell’investimento. E alla fine, vince.
Nel 2020, Time lo mette in copertina, due volte lo inserisce tra le 100 persone più influenti del mondo. Durante la pandemia, mentre molti ristoranti chiudono, lui apre cucine da campo negli Stati Uniti per nutrire chi ha perso tutto. Nel frattempo, racconta anche sé stesso con una nuova leggerezza. In José Andrés and Family in Spain, programma vincitore del Daytime Emmy, viaggia nella sua Spagna insieme alle figlie. Non c’è eroismo, non c’è cronaca: solo il bisogno di condividere, di ricordare, di cucinare per le persone amate.
La tragedia di Gaza del 2024, con l’uccisione di sette operatori di WCK in un bombardamento, è una delle ferite più profonde nella sua storia recente. Ma anche lì, nel dolore, emerge il principio guida di Andrés: «Condividere il cibo è l’atto umano più fondamentale».
Il 2025 è un altro anno cruciale per Andrés, non solo in cucina ma anche nel suo ruolo di narratore e divulgatore. È appena uscito Change the Recipe: Because You Can’t Build A Better World Without Breaking Some Eggs, un libro che intreccia aneddoti personali, riflessioni sull’impatto sociale del cibo e un invito a ripensare le regole, anche in cucina, per costruire un mondo migliore. In parallelo, Andrés approda anche sulla tv generalista americana come co-conduttore, insieme a Martha Stewart, del nuovo cooking show Yes, Chef, in onda su NBC: una gara tra cuochi che mescola tecnica, creatività e spirito collaborativo, in perfetta sintonia con la sua filosofia. È inoltre uno dei protagonisti di Chef’s Table: Legends su Netflix, insieme a Thomas Keller, Alice Waters e Jamie Oliver. Ma tra i quattro, lui è il solo a portare una biografia che unisce l’alta cucina all’emergenza umanitaria.
La tavola che prepara oggi, dovunque nel mondo, ha la stessa forma rotonda di quella della sua infanzia. E se la sua cucina ha guadagnato riconoscimenti, medaglie e copertine, è perché non ha mai smesso di essere un atto d’amore.
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