Un successo commerciale negli Stati Uniti, ma un modello gastronomico che solleva più di una perplessità quando si parla di identità culinaria. Nel menu di Olive Garden si trovano piatti di fettuccine alla panna con pollo servite insieme a infinite porzioni di strani grissini morbidi e insalata a volontà. Per molti statunitensi è sinonimo di cucina italiana. Per un italiano, è solo un equivoco culinario, una caricatura. Ma la questione è più complessa: dietro l’insofferenza italiana verso la catena statunitense si nasconde una riflessione più ampia su identità, stereotipi e l’evoluzione della cucina italo-americana.
Fondata nel 1982 a Orlando, Florida, Olive Garden è una catena di ristoranti specializzati in cucina “italiana” di proprietà del gruppo Darden Restaurants. Oggi conta oltre 900 sedi negli Stati Uniti e genera un fatturato annuo che supera i 4 miliardi di dollari. Il marchio è diventato nel tempo un’istituzione del casual dining americano, basando il suo successo su porzioni abbondanti, prezzi accessibili e un’esperienza conviviale. Il problema, tuttavia, non è (solo) nel piatto. Perché Olive Garden è spesso detestato dagli italiani? Non per snobismo, ma perché ciò che propone non rappresenta né la cucina regionale italiana né, in modo autentico, quella italo-americana. Quest’ultima ha radici storiche ben precise: nasce tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nei quartieri popolari di New York, Boston, Chicago e altre grandi città, quando milioni di emigranti italiani, soprattutto dal Sud, cercavano di ricostruire a tavola un senso di appartenenza. La cucina italo-americana è un linguaggio autonomo, un adattamento creativo delle disponibilità locali e dalle esigenze del nuovo mondo. I piatti iconici – come il chicken parm o gli spaghetti con le polpette – sono frutto di questa mediazione culturale. Raccontano una storia vera fatta di inventiva, nostalgia e comfort.
“Lasagna Fritta” e “Chicken Tortelloni Alfredo”
Olive Garden, invece, non racconta una storia: la complica. Non è tanto una reinterpretazione quanto una caricatura. La sua cucina standardizzata, pur efficace commercialmente, trasforma tradizione e memoria in format, appiattendo ogni riferimento a un’idea generica di italianità con ampio uso di panna, aglio in polvere e parmesan. È un’estetica del cliché più che una proposta gastronomica. Un esempio emblematico di questo scarto culturale si verifica spesso quando studenti italiani in viaggio studio negli Stati Uniti vengono accolti dalle loro famiglie host statunitensi. Non è raro che, come gesto di benvenuto, li si porti a cena da Olive Garden, “per farli sentire a casa”. Il risultato – documentato più volte anche sui social – è pressoché invariabile: sgomento, delusione, perplessità. Una cortesia fatta con convinzione, ma basata su un fraintendimento profondo di cosa sia davvero la cucina italiana, o anche solo un suo riflesso fedele. Un po’ di coda di paglia c’è, infatti il sito di Olive Garden non è disponibile in Italia.
Basta un VPN per sbirciare il menu: chicken and shrimp carbonara (tre parole che fanno fatica a coesistere nella stessa frase); lasagna fritta (perché?); Ravioli Carbonara e il Tour of Italy ovvero un piatto che contiene tre abbondanti assaggi di lasagna, fettuccine alfredo e chicken parmigiana. Tutto molto sapido, aglioso, dal gusto inconfondible di sughi in barattolo industriali. Sul sito web, ogni pietanza riporta gli ingredienti e il conto delle calorie. Fra i piatti più calorici, il Five Cheese Ziti Al Forno (1170 Kcal) con cinque formaggi non ben identificati; il Chicken Tortelloni Alfredo (1980 Kcal) ossia tortelloni ripieni di Asiago cotti al forno con salsa Alfredo, la solita miscela di formaggi italiani misteriosi e pangrattato tostato, infine guarniti con tagliata di pollo grigliato; e la Steak Gorgonzola Alfredo (1580 Kcal), un mischione a base di controfiletto alla griglia servito su fettuccine Alfredo, condite con gorgonzola e spinaci, e guarnite con pomodori secchi e una spruzzata di aceto balsamico. Le porzioni hanno un prezzo che si aggira intorno ai 20-25 dollari.
Olive Garden non è il male assoluto, né va demonizzato: risponde a una domanda precisa e ha trovato una formula di successo. Ma confonderlo con la cucina italiana – o persino con quella italo-americana – è un errore concettuale. Dietro ogni piatto, anche il più semplice, c’è una cultura. Ed è lì che vale la pena guardare, oltre il marketing.
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