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La scoperta

L'osteria dal nome africano che ha fatto rinascere un borgo della Bassa Toscana

La riapertura di un'antica osteria in un borgo della Bassa Maremma ha dato nuova vita al paesino: ecco perché

  • 13 Giugno, 2025

C’è un antico proverbio africano: “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”; lo vorrei cambiare così: “ci vuole un’osteria per fare un villaggio”, dalla Maremma a Brooklyn. Mi spiego: sono stato di recente in vacanza per qualche giorno in Toscana, bassa Maremma per la precisione, e sono rimasto rapito dall’esperienza dell’Osteria Maccalè a San Giovanni delle Contee, frazioncina di Sorano, paese del tufo. Posto delizioso, ma di quelli da cui si scappa, soprattutto se si è giovani, perché c’è poco o nulla, soprattutto per le aspettative di una società post-contadina, che non va a letto con le galline e non si sveglia con il gallo.

Osteria Maccalè a San Giovanni delle Contee

Lo strano nome dell’osteria Maccalè

Qualche anno fa, utilizzando lo strumento benedetto della cooperativa di comunità che permette di creare progettualità di lavoro in piccoli e piccolissimi centri, un gruppo di abitanti ha riaperto l’osteria del posto, inaugurata negli anni Trenta da un contadino rientrato dalla campagna di Etiopia a cui i compaesani avevano regalato un soprannome un po’ storpiato: Maccalè, al posto della città etiope di Macallè. Non è un’osteria qualunque, Maccalè, per la qualità del cibo e del vino (uno dei soci produce con altri amici uno dei vini naturali più interessanti mai provati), ma anche perché è davvero “un posto di paese”: che serve i turisti e i curiosi, ma anche e prima gli abitanti. Attorno a questo locale “polivalente”, è rinata una vita sociale e sono ripresi gli afflussi di persone di ogni tipo. Insomma, è rinato un villaggio.

Osteria Maccalè, Toscana

L’importanza sociale di un’insegna di riferimento

Curiosamente, nella stessa vacanza stavo leggendo il saggio di una sociologa americana, Stacy Torres, dal titolo At Home in the City: Growing Old in Urban America, in cui invece si racconta l’effetto molto negativo per una piccola comunità di anziani e giovani a Brooklyn della chiusura della loro bakery di riferimento. Non semplicemente una pasticceria e panificio, ma un luogo che in sessant’anni di attività era divenuto un riferimento sociale per gli abitanti del quartiere, aveva ospitato storie, fatto sedere avventori stanchi, favorito amicizie. La sua fine – il proprietario andava in pensione e non aveva eredi – ha comportato la diaspora di quella piccola comunità multietnica e multietà, che non sarebbe più stata così coesa come nel vecchio locale.

Ci vuole un’osteria per fare un villaggio

A tenere insieme due realtà che non potrebbero essere più diverse, il potere magico di creare accoglienza, scambio, benessere che hanno i luoghi dove si mangia e si beve. Quello che offrono è meno importante di come lo fanno, e dell’identità che si portano dietro. Identità che – l’ho scritto fino allo sfinimento, mio e dei lettori – oggi è quantomai sottoposta alla minaccia esistenziale del mercato, per cui è comunque meglio che i clienti vengano, stiano poco e cambino spesso (loro e i loro locali) come succedeva tempo fa nelle insegne intorno alle Fiere, quasi mai grandi posti. E invece ricordiamocelo, noi che il mondo food lo facciamo, critichiamo, descriviamo, amiamo: ci vuole un’osteria per fare un villaggio. Vogliamogli bene.

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