C’è un antico proverbio africano: “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”; lo vorrei cambiare così: “ci vuole un’osteria per fare un villaggio”, dalla Maremma a Brooklyn. Mi spiego: sono stato di recente in vacanza per qualche giorno in Toscana, bassa Maremma per la precisione, e sono rimasto rapito dall’esperienza dell’Osteria Maccalè a San Giovanni delle Contee, frazioncina di Sorano, paese del tufo. Posto delizioso, ma di quelli da cui si scappa, soprattutto se si è giovani, perché c’è poco o nulla, soprattutto per le aspettative di una società post-contadina, che non va a letto con le galline e non si sveglia con il gallo.
Qualche anno fa, utilizzando lo strumento benedetto della cooperativa di comunità che permette di creare progettualità di lavoro in piccoli e piccolissimi centri, un gruppo di abitanti ha riaperto l’osteria del posto, inaugurata negli anni Trenta da un contadino rientrato dalla campagna di Etiopia a cui i compaesani avevano regalato un soprannome un po’ storpiato: Maccalè, al posto della città etiope di Macallè. Non è un’osteria qualunque, Maccalè, per la qualità del cibo e del vino (uno dei soci produce con altri amici uno dei vini naturali più interessanti mai provati), ma anche perché è davvero “un posto di paese”: che serve i turisti e i curiosi, ma anche e prima gli abitanti. Attorno a questo locale “polivalente”, è rinata una vita sociale e sono ripresi gli afflussi di persone di ogni tipo. Insomma, è rinato un villaggio.
Curiosamente, nella stessa vacanza stavo leggendo il saggio di una sociologa americana, Stacy Torres, dal titolo At Home in the City: Growing Old in Urban America, in cui invece si racconta l’effetto molto negativo per una piccola comunità di anziani e giovani a Brooklyn della chiusura della loro bakery di riferimento. Non semplicemente una pasticceria e panificio, ma un luogo che in sessant’anni di attività era divenuto un riferimento sociale per gli abitanti del quartiere, aveva ospitato storie, fatto sedere avventori stanchi, favorito amicizie. La sua fine – il proprietario andava in pensione e non aveva eredi – ha comportato la diaspora di quella piccola comunità multietnica e multietà, che non sarebbe più stata così coesa come nel vecchio locale.
A tenere insieme due realtà che non potrebbero essere più diverse, il potere magico di creare accoglienza, scambio, benessere che hanno i luoghi dove si mangia e si beve. Quello che offrono è meno importante di come lo fanno, e dell’identità che si portano dietro. Identità che – l’ho scritto fino allo sfinimento, mio e dei lettori – oggi è quantomai sottoposta alla minaccia esistenziale del mercato, per cui è comunque meglio che i clienti vengano, stiano poco e cambino spesso (loro e i loro locali) come succedeva tempo fa nelle insegne intorno alle Fiere, quasi mai grandi posti. E invece ricordiamocelo, noi che il mondo food lo facciamo, critichiamo, descriviamo, amiamo: ci vuole un’osteria per fare un villaggio. Vogliamogli bene.
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