Alle pendici dell’Etna c’è un paesino con poco più di mille abitanti che ha ottenuto la sua autonomia solo nel 1955. Si chiama Milo e si erge fino a 720 metri sul livello del mare. Oltre alla notorietà della sua frescura, in cui cercare rifugio nelle calde estati siciliane, questo piccolo comune in provincia di Catania è famoso anche per e grazie a Franco Battiato e Lucio Dalla. I due artisti possedevano ognuno una rispettiva casa, Battiato è morto proprio a Milo. «Sai quante volte sono venuti a mangiare qui da me? Pensa che, quando Battiato è morto, io gli ho intitolato anche questa via», dice senza mezzi termini Saro Grasso – oste di zona – «senza una richiesta ufficiale?», viene da chiedere, e lui ribatte con sorriso sornione: «No, mia iniziativa, tant’è che i vigili vengono spesso a riprendermi per farmi togliere la “v” e la “i” da “Via Franco Battiato”, le tolgo ma poi ce le rimetto con un pennarello!». Basterebbe questo episodio per riassumere la verve e la caparbietà di Grasso, titolare della trattoria Quattro Archi, una delle migliori della regione a cui il Gambero Rosso ha assegnato il riconoscimento dei Due Gamberi nella guida Ristoranti d’Italia 2025.
Quattro Archi è il centro nevralgico-culinario per i palati di autoctoni, turisti ma soprattutto di note personalità: «Proprio adesso sono andati via Red Ronnie e Susy Blady», dice mentre mi accoglie con un sorriso e mi lascia ampia scelta sul tavolo a cui accomodarmi: «Scegli tu». Ti siedi e il messaggio della targhetta che ti trovi di fronte è altamente evocativo dell’anima di quel posto: “Attenti al padrone (è pazzo)”. In effetti i 4 Archi non è un luogo, è l’anima e la declinazione dell’indole di Saro Grasso in formato trattoria. Ogni parete, ogni arredamento – che sia vintage o kitsch, dal telefono con discorotella, alle targhe che indicano nomi di strade del mondo, fino a coppe, palloni da basket, sedie di legno appese, una tenda fatta di tappi di sughero – parla di Grasso, dei suoi trent’anni (il prossimo 7 luglio) in quei metri quadrati di locale in cui paga ancora l’affitto.
«I 4 Archi nascono per disperazione», esordisce Saro mentre sfilano i piatti patrimonio della Sicilia etnea. L’esordio a tavola è con uova sode: le batto, le sguscio, lui parla: «La mia storia inizia in un ristorante, ma bada bene: io non so proprio cucinare, non so accendere nemmeno il fornello», e la domanda sorge spontanea: «E allora che faceva?», laconico dice: «Il lavapiatti, ma poi quando ho preso il diploma da ragioniere e ho cominciato a lavorare in ufficio è finito tutto». Gli occhi si fanno nostalgici, intanto sotto il naso compaiono altre uova al tegamino con asparagi, e con «una salsa segreta. Tu mangia che è buona».
«Soffrivo a stare in mezzo alle carte, in ufficio. Dopo quindici anni di lavoro impiegatizio, mi sono licenziato. Mi sono sposato il 10 settembre e il 31 dicembre ero disoccupato: tragedia in famiglia!». E cosa ha fatto? La risposta arriva quando un arancino tondo, perfettamente dorato e imbellito di foglie verde scuro in cima tagliate a julienne dallo sconosciuto ripieno, mi passa sotto il naso: «Ho dormito per due mesi», lui sorride e io infilo la forchetta a spaccare un ignoto arancino che so già saprà di buono. «È fatto con il cavolo trunzu», una tipologia di cavolo risalente alla dominazione spagnola del 1400, negli anni scomparso e riscoperto da alcuni piccoli coltivatori della zona delle Aci in Sicilia. Io assaporo questo strano arancino che è il nido per un bel contrasto di sapori tra la dolcezza del cavolo, l’acidità del pomodoro, e la consistenza unica e filante del caciocavallo ragusano. «Una cosa rara, questa che sto assaggiando», parlo mentre mastico con attenta voracità. «Unicissima, siamo stati i primi a crearlo 20 anni fa, poi gli altri ci hanno copiato, ma va bene lo stesso, siamo contenti», sorride Saro.
La curiosità di sapere com’è nato è tanta. Dopo aver dormito due mesi cosa è successo? «Un giorno un mio amico, sapendo della mia nullafacenza in quel periodo, mi chiede il favore di portare la sua macchina a cambiare la batteria. Girando in zona, arrivo a Milo. Nella mia testa, da un po’ c’era già l’idea di aprire un locale, ma non trovavo licenze». All’epoca, racconta Saro mentre sulla tavola inizia la processione di primi piatti, le licenze erano poche e costavano tanto: «Quaranta, cinquanta milioni di lire. L’unica soluzione era trovarne una dormiente: attiva ma non usata», spiega mentre il cameriere serve direttamente due primi abbondanti.
«Pasta chi masculini da magghia, con pomodoro, finocchietto, uva passa, pinoli, mollica», da non confondere assolutamente con la pasta con le sarde palermitana. «Qui il sapore è tutto più delicato e le alici sono fresche». Non finisce nemmeno di parlare che addento già il boccone: il palato si riempie di freschezza, dolcezza, sapidità, è un’esplosione. Saro serve anche i maccheroni di pasta fresca con sugo di suino dei Nebrodi. Non c’è bisogno nemmeno di spiegazioni. E la licenza è arrivata?. «Centomila lire, a Milo. Scoperta e presa. Da 30 anni pago quell’affitto».
«Quando abbiamo aperto, per un anno i 4 Archi era una pizzeria, dopo un anno volevo che diventasse anche ristorante e qualcuno mi ha presentato, per caso, una signora, una certa Lina, che abitava a 100 metri da qui e faceva una cucina casalinga». Il seguito è lapalissiano: Lina diventa la cuoca dei 4 Archi dove ha continuano a cucinare, e lo fa tuttora, da 29 anni. «È un’autodidatta fortissima, fa ricette di casa, come una volta: quando mi ha fatto il pane cotto per la prima volta mi sono emozionato, ero lì lì per piangere: mi ha portato indietro a quando ero bambino e i miei genitori mi costringevano a mangiare il pane cotto che adesso adoro».
Intanto, se gli antipasti e i primi erano azzeccati, nemmeno i secondi scherzano: costata di asino “razza ragusana” alla brace; e salsiccia dell’Etna, di Turi Sciuto, alla brace entrambe accompagnate da con insalata di “Trunzo di Aci”. Sì, perché «di verdure noi non abbiamo altro che Trunzu», spiega Saro, «non pensare di trovare rucola o similari, qui non ne abbiamo». Si versa l’ennesimo calice di Quinto Arco, un «vino che produciamo anche noi, è un Etna Rosso Doc».
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