L’effetto scorte negli Usa tra gennaio e marzo tiene a galla le vendite di vino italiano nel primo semestre 2025. Tuttavia, non ci sono motivi per esultare, come è già emerso dai numeri del primo quadrimestre dell’anno. Nel più importante mercato di riferimento per il vino made in Italy, dove da aprile 2025 sono in vigore i dazi sull’import decisi dall’amministrazione Trump, gli importatori hanno acquistato in netto anticipo i prodotti italiani, determinando un andamento altalenante delle vendite. Secondo l’analisi di Nomisma Wine Monitor, pubblicata il primo settembre, il periodo gennaio-giugno 2025 negli Usa appare positivo (+2,5% in valore) solo grazie agli acquisti del primo trimestre. Infatti, la seconda parte, è negativa. Fino a marzo 2025, la crescita dell’import di vino aveva segnato un +22% rispetto allo stesso periodo del 2024, ma il dato cumulato di aprile-giugno ha registrato una riduzione del 7 per cento.
I dazi (al 15%) decisi dalla Casa Bianca, dopo l’accordo siglato con la Commissione europea (che non ha salvato il vino e che sta già creando cortocircuiti normativi a danno di importanti produzioni agroalimentari italiane), sono stati messi in dubbio da un pronunciamento, il 30 agosto scorso, di una Corte d’appello americana, che li ha definiti «in gran parte illegali», a seguito di una causa promossa da alcune aziende locali (tra le quali l’importatore di vini italiani Victor Schwartz). La Corte d’appello ha dato tempo all’amministrazione Trump fino a metà ottobre per presentare ricorso alla Corte suprema. E questo quadro non fa che alimentare il clima di incertezza tra le imprese vitivinicole e tra gli importatori.
«Le nostre aziende sono evidentemente obbligate a monitorare le dinamiche in atto a livello globale per individuare altri mercati in grado di assorbire le nostre produzioni», è il commento di Denis Pantini, responsabile Nomisma Wine Monitor. «Il rischio di una contrazione del mercato statunitense – avverte – potrebbe avere un impatto significativo per l’export vitivinicolo italiano, anche alla luce di un trend nei consumi interni che già da qualche anno mostra segnali di rallentamento. Una sua flessione non potrebbe essere facilmente compensata, almeno nel breve periodo, dalla crescita di altri mercati, che spesso presentano dinamiche di sviluppo più lente e minori capacità di assorbimento».
Al di là degli Stati Uniti, considerando i 12 principali mercati internazionali, si registra una crescita delle importazioni di vino dall’Italia dell’1,5% a valore e del +2,1% a volume, fa sapere Nomisma, che si sofferma su alcuni grandi acquirenti. Il Canada, per esempio, che chiude il semestre in positivo, con crescite vicine all’11%, per via della sostituzione a scaffale dei vini statunitensi che hanno subito un crollo superiore al 65%, come ritorsione ai provvedimenti tariffari applicati dal presidente Trump al governo canadese. Anche la Germania porta a casa una discreta performance, coi vini made in Italy a +10,3% a valore, in recupero rispetto a un anno fa.
Segna il passo, al contrario, il Regno Unito: la flessione è pari al 7% a valore. Male anche Svizzera, Corea del Sud, Norvegia e Cina, che hanno registrato una contrazione delle importazioni come risposta al rallentamento della domanda interna. Sono, infine, positivi i conti di Giappone e Brasile.
Nomisma Wine Monitor ha preso in esame anche le diverse categorie. Nel primo semestre 2025, sembra rallentare l’ascesa degli spumanti italiani. La crescita cumulata nei 12 mercati analizzati è dell’1% a valore e del 6% a volume: Giappone, Stati Uniti e Cina sono i tre mercati che registrano i maggiori incrementi. Ma, al contrario, è marcato il calo nel Regno Unito (-6,6% a valore), in Francia (-2,4%) e in Australia (-4,4%). Spostando l’attenzione sui vini fermi e sui frizzanti italiani, dopo un 2024 in negativo, la Germania recupera (+14,2% a valore), assieme a Canada, Australia e Brasile. Restano negativi i dati di Regno Unito (-8,1%) e Cina (-10,5 per cento).
Secondo Pantini, alla luce degli scenari internazionali, le imprese italiane devono iniziare a «guardare con più attenzione a nuove aree geografiche di espansione, diversificando il più possibile i mercati di sbocco. È però necessario essere consapevoli del fatto che il processo di radicamento commerciale al di fuori dei mercati consolidati, come quello statunitense, richiede tempi medio-lunghi, oltre che investimenti mirati e strategie di lungo respiro».
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