Nel vino, la qualità nel bicchiere non basta più. A generare valore è lo spazio che la racconta. È stato questo uno dei temi cardine trattati durante un seminario al recente Festival ViniMilo 2025 sull’Etna. Architettura, luce, materiali, suono e rituali trasformano la visita in memoria e la memoria in vendite. Le neuroscienze spiegano perché: quando contesto e narrazione sono coerenti, strettamente legati al territorio che si svuole esperire, si attivano i circuiti di attenzione, piacere e memoria episodica, nonché il rilascio di dopamina, aumentando disponibilità a pagare, e la fedeltà.
La chiave è la multisensorialità guidata. Vista, olfatto, tatto e acustica devono parlare la lingua del territorio e del brand. Palette legate ai suoli, superfici autentiche con firma tattile, soglia sonora bassa per proteggere l’olfatto: non sono dettagli estetici ma leve percettive. L’embodied cognition, ovvero quella teoria che afferma che la cognizione (ovvero il pensiero, la percezione e interazione con il mondo) è intrinsecamente legata all’esperienza corporea e all’interazione con l’ambiente, insegna che ciò che attraversiamo modula il giudizio su ciò che beviamo, come abbiamo visto in numerosi articoli in questa rubrica del Settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso. Un percorso intuitivo, un climax scenico prima del tasting e una luce che rivela senza abbagliare, magari coerente con la tipologia di vino: luce rossa in presenza di vini più aromatici o verde per quelli più “acidi”, preparano il cervello alla ricompensa e orientano il consenso.
Il pubblico, soprattutto quello giovane, sempre più chiede alla cantina di essere conviviale, interattiva, nativa per smartphone. Sequenze brevi e memorabili, stazioni chiare, micro-lab di assemblaggio, photopoint e filtri di realtà aumentata rendono l’esperienza condivisibile, senza svilirne il contenuto tecnico. La comunità si costruisce con piccoli live, collaborazioni con artigiani locali e masterclass agili.
E nessun territorio rende questa impostazione più evidente dell’Etna. Il vulcano offre una materia narrativa potente: contrade, suoli neri, altitudini, muretti a secco. Qui, lo spazio ispirante coincide con l’ancoraggio percettivo al paesaggio: basaltina e legni vissuti, finestre-cornice sui crateri, terrazze in quota come picco emotivo, prima di Nerello Mascalese e Carricante. Un tavolo in pietra lavica incide quanto una nota ematica nel calice; mappe delle colate e timeline basate su eruzioni–annate guidano la lettura; un gesto rituale come l’apertura di una botte storica fissa il ricordo.
In questo ambito, e non solo, l’enoturismo, integrato con rifugi, guide vulcanologiche e produttori locali, riduce l’attrito logistico e libera attenzione per il sensoriale. È capitale cognitivo, non costo edile. In un mercato saturo di vini eccellenti, la vera scarsità è la memoria dell’ospite: progettare spazi che ispirano trasformerebbe ogni visita in racconto e ogni giovane curioso in cliente di lungo periodo. L’Etna lo dimostra: quando luogo, narrazione e bicchiere si allineano, la cantina diventa un dispositivo culturale che protegge margini economici e garantisce differenziazione.
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