Salvo Foti, catanese classe 1962, è un enologo, autore di diversi volumi sul vino, collaboratore di note aziende siciliane del Ragusano e del Trapanese e vignaiolo, che ha investito soprattutto sulla viticoltura etnea partecipando alla nascita di realtà vitivinicole oggi leader di questo territorio unico. Qualcuno sostiene, con buone ragioni, che sia stato lui a “inventare” per primo il vino dell’Etna nel senso in cui lo intendiamo oggi.
Salvo Foti assaggia una delle etichette della cantina I Vigneri che gestisce a Milo con i figli
Lei è stato un pioniere del vino dell’Etna. Si può dire che lo ha “inventato”. Com’è cominciato tutto?
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 in Sicilia vi era scarso interesse per i vitigni autoctoni e in genere per la vitivinicoltura tradizionale. I pochi vini siciliani imbottigliati, più considerati, avevano il suffisso “Chardonnay di…”, “Cabernet Sauvignon di…”, ecc.
E i vini dell’Etna?
Eravamo in pochi a crederci. La vitivinicoltura etnea era considerata di poco interesse e marginale. Anche chi ci lavorava, come me, godeva di poca considerazione. I vini etnei erano snobbati anche perché i gusti di allora erano molto diversi dalle caratteristiche dei vini prodotti sul vulcano. L’enologia siciliana che contava era un’altra e nella parte opposta dell’isola, e tutti erano allora concordi con questo: enologi, produttori, giornalisti, critici, guide e i consumatori. Nessun importante produttore, enologo di fama, allora, si sognava di venire a impiantare vigne e fare vini sopra un vulcano attivo! Il vino dell’Etna di quegli anni era venduto sfuso, sul posto, quasi esclusivamente a consumatori locali. Molti viticoltori vendevano le uve. Pochissime le aziende con vigneti e cantina sul vulcano che imbottigliavano con continuità (tra queste le cantine Villagrande e Murgo).
I filari della contrada di Milo dove nasce il vino Palmento Caselle
Molti ritengono che il “rinascimento” dei vini dell’Etna cominci nei primi anni Duemila.
In verità, il rinascimento dei vini etnei inizia nei primi anni Novanta a opera mia e di Giuseppe Benanti e poi di altri produttori della zona: quindi sino al 2000 non vi era nessun “straniero” sull’Etna. Tutto nasce dalla volontà di Giuseppe Benanti, nel 1988, di diventare produttore, e dal mio lavoro di ricerca, prima storico e poi tecnico-scientifico, in collaborazione con il professor Rocco Di Stefano, direttore dell’Istituto Sperimentale dell’Enologia di Asti, grande scienziato e luminare di chimica enologica.
Oltre a Benanti, chi altri ha mosso i primi passi sull’Etna?
Alice Bonaccorsi, Valcerasa, subito dopo Ciro Biondi, I Vigneri e Il Cantante (azienda di di Mick Hucknall, leader dei Simply Red).
I produttori di oggi le devono molto…
Io e Benanti, oltre all’aspetto produttivo, sin dall’inizio degli anni ’90 fummo dei promotori di un’importante comunicazione e divulgazione della vitivinicoltura etnea, che stimolò la curiosità e l’interesse di tecnici, giornalisti e commerciali. Tutti i produttori, tecnici e addetti del settore a vario titolo che arrivarono successivamente trovarono nell’azienda Benanti e nei suoi vini un riferimento.
Un’altra svolta arriva quando l’Etna viene riscoperta da un gruppo di “stranieri”
Solo dieci anni dopo l’inizio della “Renaissance del vino dell’Etna”, quindi nei primi anni Duemila, arrivano i tre produttori, Andrea Franchetti, Frank Cornelissen e Marc De Grazia, che diedero una enorme spinta non solo produttiva, ma soprattutto promozionale e commerciale che ha fatto diventare il territorio etneo tra i più conosciuti e considerati nel patrimonio enologico mondiale.
Come è cambiato il mondo del vino siciliano da quando ha cominciato?
Più che di cambiamento, parlerei di consapevolezza che noi produttori siciliani abbiamo acquisito in questi ultimi trent’anni. La Sicilia per molto tempo è stata un “serbatoio” di vino da cui molte regioni del nord Italia e alcuni paesi esteri si sono approvvigionati per aumentare le loro produzioni. Era un vino a basso prezzo, venduto sfuso, anonimo, con alto grado alcolico. Molto alcolico e poco gradevole: era questo il luogo comune, sino a qualche anno fa, sul vino siciliano.
Qual è lo stato del vino dell’Etna oggi?
Negli ultimi vent’anni le cantine imbottigliatrici etnee sono passate da una decina a più di 250. Sull’Etna hanno trovato spazio tanti produttori locali e non, italiani e stranieri, con stili produttivi diversi. Alcuni con esperienza enologica, altri senza, alcuni molto tecnici, altri improvvisati. La rinascita enologica e l’attenzione internazionale, hanno fatto diventare l’Etna in poco tempo un caso enologico mondiale. Questo può diventare un problema nel momento in cui, chi investe sull’Etna, non produce dei “vini etnei”, ma solo vini “fatti” sull’Etna. Sull’Etna oggi convivono soggetti inclini alla produzione di vini cosiddetti naturali, vini di lusso, vini artigianali, vini alla moda, vini tecnologici, vini industriali.
Tutto ciò la preoccupa?
Il timore è che la crescita esponenziale e repentina che sta attraversando l’Etna vitivinicolo, dia spazio all’improvvisazione, incontrollata e senza programmazione: è in questo contesto che trovano opportunità gli speculatori. Lo scenario futuro, in queste condizioni, è veramente difficile da immaginare. La continuità nel tempo di questa importante rinascita del comparto vitivinicolo etneo può attuarsi solo promuovendo un programma di rivalutazione del territorio. Non si può prescindere dalla sostenibilità ambientale se si vuole dare continuità nel lungo tempo a ogni attività umana e soprattutto se si vuole “riconsegnare” alle generazioni future un territorio integro nei suoi valori ambientali e umani.
Il futuro degli spumanti etnei, in particolare da carricante, è promettente?
Per la produzione degli spumanti etnei ritengo molto adatto il carricante coltivato nelle zone più alte del vulcano, dove in modo naturale l’uva di questo vitigno autoctono, e anche di altri vitigni, può maturare integralmente mantenendo un adeguato equilibrio acido-zuccherino, ottimo per una base spumante, senza dover anticipare drasticamente la vendemmia delle uve, addirittura in estate.
C’è spazio per altri autoctoni in futuro?
Sull’Etna vi sono altri vitigni che si possono considerare “autoctoni” dato che vengono coltivati da tantissimo tempo e che sono poco considerati, sia a livello legislativo che tecnico: per esempio il grenache, coltivato in altitudine, da mille metri in su, nel versante nord-ovest del vulcano. E ancora il grecanico, la minnella bianca e la minnella nera e altri vitigni cosiddetti “reliquie”, oggi oggetto di ricerca universitaria. Anche per questi vitigni, è importante avere come obiettivo finale il territorio. Il solo vitigno, come obiettivo principale, può diventare una moda destinata a spegnersi e non avere futuro. Dobbiamo avere obiettivi territoriali, prima che altri: i vitigni, il know how, si possono trasferire ovunque. Il territorio e il vigneto, no.
I vigneti dei Vigneri a Milo, sullo sfondo la lava durante l’eruzione dell’Etna nel maggio 2022
Come definisce il suo modo di fare vino? Sente una vicinanza con il vino naturale?
“Naturalità” di un vino è per me l’impegno ad intervenire il meno possibile con energie e prodotti esterni nella trasformazione dell’uva in vino. Produrre un vino è un fatto umano non naturale. Per questo, da sempre, preferiamo definire i nostri vini “Vini umani” piuttosto che “vini naturali” o altra etichetta. “Vino umano” è per noi la continuazione delle pratiche agricole e viticole dei nostri avi, l’uso dell’antico sistema agricolo dell’alberello e del palmento, la condivisione e l’armonia del lavoro con i nostri collaboratori e con la nostra famiglia. L’obiettivo di “Vini umani” è: produrre nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente.
La cantina di Salvo Foti
Come sono cambiati i gusti? E come pensa che evolverà il mondo del vino?
Sull’aspetto commerciale del vino non ho competenze e conoscenze tali per rispondere in maniera adeguata. Però credo, almeno per la nostra civiltà occidentale, che il vino diventerà sempre di più una componente culturale. Un fatto edonistico, un rituale simbolico e umano.
E i dealcolati che spazio avranno?
“Dealcolati”? Posso solo dire che hanno poco a che fare con la nostra cultura vitivinicola.
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