Con 97 mila ettari di vigneto e oltre 35 mila aziende vitivinicole (nello specifico, la doc Sicilia conta 7.202 viticoltori e 530 imbottigliatori), la Sicilia è uno tra gli asset più importanti del vino italiano. Dal 6 al 10 giugno scorso, la viticoltura dell’isola è stata il focus di Sicilia En Primeur, l’annuale anteprima che quest’anno si è svolta Modica, nel Val di Noto, in provincia di Ragusa. Per Assovini Sicilia, promotrice dell’evento, l’occasione per fare il punto su un movimento complesso e articolato, che si presenta in ottima forma.
«Nell’ultimo quarto di secolo, dal 2000 ad oggi, la superficie italiana è passata da circa 720 mila ettari a 630 mila, con un calo del 12%. La Sicilia ha subito una contrazione ancora più marcata, ben oltre l’andamento delle altre regioni italiane, che l’ha portata a perdere il 30% della superficie vitata, passando da oltre 140 mila ettari a circa 97 mila».
Lo scenario che emerge dall’analisi commissionata al Master of Wine Andrea Lonardi e pronunciata nel corso del convegno conclusivo di Assovini Sicilia “La Cultura del vino in Sicilia: una storia millenaria che guarda al futuro”, nel Teatro Garibaldi di Modica, potrebbe spaventare. «Non sono preoccupato», assicura però Lonardi. «Il mondo del vino siciliano – spiega al Gambero Rosso – era concentrato sullo sfuso che ora è sempre meno interessante. Inoltre, sono venuti meno due tipi di viticoltura: quello dei tendoni e quello eroico degli alberelli. Con il trasferimento dei diritti di impianto, a cavallo del 2015, almeno 40mila ettari sono passati dalla Sicilia in Friuli e in Veneto per produrre prosecco e pinot grigio». E adesso che succede? «Oggi l’isola imbottiglia il 60% della produzione, ma arriverà all’80-90%. È chiaro che ci sarà una contrazione di volumi, ma ci sarà molta più qualità: sono positivo, non mi fa paura una Sicilia che perde terreni coltivati. E altre regioni dovranno contrarre», assicura Lonardi.
Andrea Lonardi, Master of Wine
Nel frattempo sembra definitivamente chiusa l’epoca dei vitigni internazionali in Sicilia. Dal 2000 al 2005, ci fu «un brevissimo “eldorado” in cui chardonnay, cabernet sauvignon, merlot e syrah venivano pagati il doppio rispetto ai locali catarratto, grillo e nero d’Avola», racconta Lonardi. «Un sogno durato poco – si legge nella relazione – promosso dai fondi Ocm, con vitigni e vigneti che si sono dimostrati non sempre adatti al clima mediterraneo e alle esigenze di mercato».
Certo, precisa Lonardi nella nostra conversazione, «ci sono in Sicilia ottimi vini da vitigni internazionali ma quel mondo per fortuna è finito: primo, il mercato non cerca più gli internazionali; secondo, è cambiato lo stile dei vini, quelli opulenti e concentrati non vanno più; terzo, quei vitigni non hanno mostrato capacità di adattamento».
Adesso si torna agli autoctoni. Per Lonardi è il segmento da sviluppare, ma come? «Il grillo ha un potenziale commerciale spaventoso, ma serve un progetto Sicilia per il grillo», è la risposta. Poi chiarisce: «Ci sono due regioni dove il cambio climatico picchia forte negli ultimi anni: Sicilia e Toscana. Ho cominciato a lavorare in Toscana nel 2003 e mai mai avrei pensato di irrigare un sangiovese. Il grillo è un vitigno che associa alla riconoscibilità stilistica la capacità di adattamento al clima: non ha alcol elevato, non produce molti zuccheri, ha bisogno di poca acqua. Ma servono dei grandi grillo, bisogna farli e raccontarli».
Le potenzialità del grillo sono enormi secondo il Master of Wine. Anche perché può essere lavorato in modi diversi. «In iper-riduzione può dare dei vini aromatici grazie al suo buon contenuto di tioli. Può ripetere il successo del sauvignon blanc in America. In più, tiene il legno benissimo. È estremamente plastico: posizionato sulla sabbia o sull’argilla, a mare o in collina, esprime bene il territorio, proprio come sa fare il sangiovese». Il grillo ha anche un vantaggio “fonetico”: «Ha un sound siciliano, è una parola facile da ricordare, tutti nel mondo possono pronunciarlo bene», assicura Lonardi. Ora però bisogna fare sul serio. «Una regione come la Sicilia deve puntare su un suo cavallo di battaglia. Serve un vitigno leader, una bandiera del vino siciliano»: secondo Lonardi, il grillo può diventarlo.
Mariangela Cambria, presidente di Assovini Sicilia
In questi anni la Sicilia ha vissuto l’esplosione dell’Etna, diventato l’areale isolano più conosciuto nel mondo. «L’Etna resta un esempio, con il fascino del vino vulcanico e quei vitigni scarichi di colore che costituiscono la spina dorsale dell’italianità: con sangiovese e nebbiolo, c’è il nerello mascalese», ricorda Lonardi. «Ma non può sostenere da solo l’immagine del vino siciliano. Servono – continua – altre aree con identità precise. Luoghi con un forte legame tra vitigno, territorio, clima, paesaggio e identità del vino».
Quali potrebbero essere questi luoghi? «Il distretto del Sudest, tra Vittoria, Noto e Siracusa, con i suoi terreni bianchi e la cultura delle mandorle è un ambiente difficile ma interessante. Qui il frappato può dire la sua». E poi? «Credo molto nel distretto dello stagnone di Marsala – ci dice Lonardi – che può offrire con il grillo un vino di laguna: proprio qui nasce Officina del vento, la vigna-progetto che abbiamo recuperato con Gabriele Gorelli e Pietro Russo».
E il “continente” vitivinicolo Sicilia non finisce qui. «Un altro distretto promettente è quello delle Madonie: nelle parti interne della Sicilia vitigni come nero d’Avola, catarratto e perricone possono dire la loro». Ma per raggiungere questi risultati serve un ingrediente indispensabile: l’uomo. «Ogni territorio deve avere una leadership di produttori. Serve il paesaggio ma servono anche dei leader in quel contesto. I grandi territori non sono solo il frutto del territorio, del clima e dei suoli: servono le persone giuste. Ci vogliono i Gaja, i Franchetti, i De Grazia. Anche il fenomeno dell’Etna è nato grazie a delle persone», avverte Lonardi.
Su un punto la relazione di Lonardi è molto chiara: in Sicilia «è venuto a mancare il ruolo delle cantine sociali». Alla base, un mix di debolezze: l’eccessivo affidamento alla mano pubblica, la mancanza di programmazione e di capacità di sviluppo di piani industriali, la mancanza di competenze manageriali, l’assenza di dialogo strategico e strutturato con le famiglie leader del vino siciliano, per definire ruoli complementari sul piano produttivo e commerciale.
C’è poi la questione della remunerazione. «Un progetto sostenibile deve garantire un reddito idoneo all’impegno e al rischio. Il reddito non può arrivare da contributi ma dai progetti di valorizzazione della materia prima che le cantine sociali possono e devono sviluppare», accusa Lonardi. A ciò si aggiungono le recenti vendemmie segnate da malattie e siccità. «Con una resa media di 41 quintali per ettaro (nel 2023) e prezzi delle uve ben sotto 1 euro al kg – avverte Lonardi – il futuro è a rischio. Il fatto che oggi si stiano estirpando i vigneti senza l’arrivo dei contributi è un segno importante». Insomma, dice Lonardi, «ad eccezione dell’Alto Adige e in linea con il resto d’Italia le cantine sociali che hanno avuto lungimiranza sono poche. In Sicilia, per esempio, Settesoli ha fatto un lavoro eccezionale». Ma una rondine non fa primavera. Le cantine sociali – è questa la ricetta del Master of Wine – «devono pensare a progetti di lunga gittata e non devono dipendere dall’indirizzo politico. Le chance sono limitate: rimarrà qualche realtà importante, ma le altre realtà non lungimiranti avranno difficoltà perché i soci senza reddito vanno via e il viticoltore estirpa sempre di più. In futuro, ogni territorio potrà avere una o due cantine sociali al massimo. Servirsene non è un errore, ma l’importante è che lavorino bene come in Alto Adige».
Antonio Rallo, presidente Consorzio Doc Sicilia
Qualche tempo fa, Seby Costanzo, un produttore dell’Etna, aveva lanciato l’idea di una cantina coworking per aiutare le piccole realtà vitivinicole sprovviste di strutture proprie. Potrebbe essere la giusta alternativa alle cantine sociali anche in Sicilia? «Sì, la cantina coworking è assolutamente necessaria. Nel 2002 a Sonoma, in California, ho avuto l’opportunità di lavorare in una cantina dove, appunto, vinificavamo per conto di una trentina di produttori. Io ero l’enologo e ricevevo ogni giorno 10-15 diversi winemakers che portavano le loro esigenze. La cantina coworking è utile non solo per le vinificazioni ma anche per la gestione e la parte commerciale. In un sistema più competitivo o c’è la possibilità di accedere a risorse di outsourcing oppure diventa difficile lavorare».
La nostra conversazione volge al termine, ma il Master of Wine chiede di nuovo la parola per lanciare un appello finale: «Ci tengo molto alla Sicilia, ma proprio per questo dico che non può vivere solo di potenziale». Che vuol dire? «Ho fatto un’esperienza professionale diretta in Sicilia ormai 10 anni. Ho imparato in Sicilia la cultura del lavorare i suoli: la Sicilia ha una grandissima scuola, ma bisogna trasformare tutto ciò in valore». Quindi aggiunge: «La Sicilia sta nella fascia alta delle regioni italiane con Piemonte, Toscana, Veneto e Friuli. Come distretto regionale di valore la Sicilia se la gioca alla grande. E poi sta nel centro del Mediterraneo e il Mediterraneo è un bacino di cultura e di scambi. Basti pensare che sull’Etna la seconda varietà più piantata è la Grenache, tipica uva mediterranea. Grillo, vermentino, albariño, assyrtiko sono vitigni caratterizzati da acidità marine comuni in quel bacino favoloso che è il Mediterraneo. La Sicilia è al centro di questo mondo: ecco perché per me, oltre all’“italianità” del vino, esiste una “sicilianità”».
Bene, e il messaggio qual è? «Voglio dire “No” al fatalismo che dice: abbiamo 70 varietà, saremo sempre di moda. Dobbiamo selezionare quali varietà. La Sicilia ce la fa sempre, ok. Ma servono strategia, metodo e disciplina».
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