Troppo spesso, nei ristoranti, la lista dei vini al calice, come la carta dei vini è un’occasione sprecata. Selezioni prevedibili, prezzi gonfiati, produttori arcinoti. «Un bicchiere di Champagne a 30 dollari, una bollicina più economica, qualche bianco, un rosato per le giornate calde e qualche rosso scontato». Eric Asimov, sulle pagine del New York Times, delinea uno schema diffuso quanto poco invitante. «Se il locale poi vuole strizzare l’occhio ai giovani, aggiungi un orange wine o un rosso servito fresco».
La mescita è uno strumento spesso sottovalutato. Eppure, una lista ben pensata può essere un’opportunità concreta per avvicinare i clienti al vino, soprattutto oggi, in un contesto di calo globale dei consumi. «La selezione al bicchiere dovrebbe fornire un caloroso benvenuto a chi si approccia al vino, mostrando la bellezza e la meraviglia che si nascondono in un buon calice», scrive Asimov. Dovrebbe essere un biglietto da visita, capace di trasmettere l’identità del ristorante e la sua visione enoica.
«Lo scopo della mescita è offrire vini deliziosi a prezzi accessibili che si abbinino ai piatti della cucina», sottolinea Matthew Conway, proprietario del wine bar Tippling House a Charleston. «Se non lo fai, come puoi aspettarti che il vino cresca e coinvolga le nuove generazioni?».
Nel suo reportage, Asimov segnala diversi esempi virtuosi. A cominciare da Terre, la trattoria di Alessandro Trezza a Brooklyn, dove tutte le oltre 100 etichette in carta sono disponibili anche al calice. Più della metà sotto i 20 dollari. «Chi entra per la prima volta spesso è intimidito e chiede un Chianti. Lo proponiamo, certo, ma portiamo anche altre opzioni, da assaggiare: li incuriosiamo, li coinvolgiamo».
C’è poi Penny Roma a San Francisco, che propone 15 referenze al bicchiere, nessuna sopra i 19 dollari. La selezione spazia da etichette familiari a scelte più audaci. «C’è chi cerca certezze e chi è più curioso: il nostro staff è formato per accompagnarli in entrambe le direzioni», racconta Sam Bogue, beverage director.
Matthew Conway, invece, ha lanciato un’idea semplice quanto efficace: ogni venerdì, tramite un contest su Instagram, viene scelto un vino speciale da servire al calice a prezzo fisso. A volte raro, a volte costoso, ma sempre in grado di sorprendere. «È un modo per farli entrare e farli parlare di vini a cui normalmente non avrebbero accesso. A volte ci guadagniamo, a volte andiamo in pari. Ma creiamo un dialogo».
È proprio lì il punto: costruire un rapporto tra cliente e locale, educare con passione e competenza, incuriosire con scelte fuori dagli schemi. La realtà, però, è spesso diversa. Troppi ristoranti adottano un approccio a breve termine: vedono la mescita solo come fonte di margini (una pratica diffusa anche in Italia), utile a compensare altri costi – come quelli della cucina – «invece che come uno strumento strategico di fidelizzazione».
E il mercato non aiuta: trovare buone bottiglie a prezzi contenuti è sempre più difficile. Così, la scorciatoia è affidarsi ai grandi marchi: facili da reperire, facili da spiegare. Il risultato? Liste al calice piatte, noiose, senz’anima.
«Oggi molti ristoranti gettano la spugna», conclude Asimov. «Proprio come le città che iniziano a deteriorarsi per la mancata cura delle infrastrutture, trascurare i vini al calice significa minare le fondamenta stesse della cultura gastronomica».
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