
Trastevere, un tempo zona popolare con una vocazione all’accoglienza, è oggi un palcoscenico aperto h24: tavolini affollati, panni stesi solo per finta, insegne d’osteria tutte uguali, e smartphone sempre accesi. Il Rione XIII è diventato un hotspot turistico, anche grazie a Instagram, dove basta l’inquadratura giusta per trasformare una piazza in attrazione virale. Il Bar San Calisto da oltre mezzo secolo affacciato sull’omonima piazza, a pochi passi da Santa Maria in Trastevere e dalla casa dove è nato Alberto Sordi, sembra infischiarsene del farsi fotografare. Eppure, è uno dei luoghi del Rione più postati, taggati, catturati. Il merito non è di menu gourmet o cocktails di tendenza: il San Calisto sembra rifiutare ogni tentazione di maquillage, e proprio questa sua indifferenza alle imposizioni dell’algoritmo lo ha reso un punto fisso nel pellegrinaggio urbano del turista contemporaneo.
In mezzo a “osterie” tutte uguali con le tovaglie a scacchi, pastasciutte servite nel padellino e menu seriali, il Bar San Calisto è un’anomalia: arredi anni Settanta, caffè sotto l’euro, birre in bottiglia e una manciata di gusti di gelato. Nessun restyling, nessuna concessione alle mode. Eppure, funziona. Per gli habitué trasteverini, il “Sanca” è una seconda casa. A stupire è il suo successo con chi il quartiere lo vive da turista. Spesso disorientati da un’offerta che finge tradizione e serve cliché, al San Calisto gli stranieri nella città eterna sembrano invece trovare qualcosa di diverso. Non migliore, ma inaspettato. Arrivano prevedendo chissà che esperienza e si trovano davanti a un bar spartano, spesso sovraffollato e rumoroso, con un servizio essenziale e una fauna inusuale. Un locale che non cerca di piacere: chi ci arriva lo fa per sentito dire, per una Storia su Instagram, un TikTok con la musichetta trendy, o incuriosito dal capannello di avventori al tramonto. Molti giovani statunitensi restano inebetiti dalla open bottle policy (bere dalla bottiglia all’aperto, che a casa loro è illegale) e dalla potenza dello sgroppino, altri – più boomer – alzano il sopracciglio al loro vicino di tavolo barbuto che si rolla tranquillamente una sigaretta che sa di salvia. Nel 2018 il locale è stato chiuso su ordine del Questore perché “malfrequentato da pregiudicati” e “causa di schiamazzi notturni”. Come se niente fosse, tre giorni dopo riapriva e tutto era tornato alla normalità. Marcellino Forti (il fondatore) alla cassa, i tavolini minuscoli con il logo della birra, e i ritagli di giornali sportivi sui muri. Fuori, la sfida quotidiana a chi riesce ad accaparrarsi una delle sedie di plastica verde sulla piazzetta rumorosa e piena di contrasti.
Un altro elemento del successo del Bar San Calisto è proprio la sua involontaria fotogenia. Il bar non è instagrammabile per estetica, ma per atmosfera. La jazz band che la sera suona in piazza, le comparse di Cinecittà che giocano a carte tutte le mattine, i personaggi del rione che occupano gli stessi tavoli da anni: tutto sembra già una scenografia. Alcuni influencer hanno raccontato il San Calisto senza edulcorarlo, rendendolo un simbolo di resistenza spontanea alla gentrificazione estetica, contribuendo a renderlo in tal modo virale.
Il San Calisto piace al turista bombardato dalla Grande Bellezza perché non chiede di essere capito. Non si cura dell’immagine che dà, e per questo diventa immagine. In una Trastevere che si reinventa ogni giorno per risultare riconoscibile, il locale resta immobile. E paradossalmente, in quel non fare nulla per cambiare, diventa simbolo di un’epoca che cambia comunque.
Tutte le immagini sono tratte dal profilo Instagram Bar San Calisto.
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