In Cina i tre anni pandemici hanno provocato unāonda lunga anche nel settore della ristorazione. In generale in questo primo semestre la forbice tra ristorazione alta e fast food o luoghi di consumo popolare si ĆØ ampliata penalizzando la fascia media. Molti ristoranti o catene di ristorazione hanno chiuso e ancora oggi, a parte qualche eccezione, si può notare come non vi sia una frequenza costante di clientela e una crescita progressiva, a vantaggio dellāutilizzo del delivery che ha assunto un certo carattere di prevalenza.
Non ĆØ indenne da questa rappresentazione la ristorazione italiana, risultato non solo di una scrematura derivata dai tre anni di pandemia, ma anche di costi di gestione in aumento da un lato e della volubilitĆ dei consumatori (spesso giovani cinesi) dallāaltro. Certo, come detto, le eccezioni ci sono: da Shanghai a Pechino abbiamo nomi prestigiosi di brand italiani, posizionati sulla fasce alta che sono sicuramente garanzia di prodotto e processo, pensiamo a Da Vittorio, Niko Romito con Bulgari, Giada Garden, 8½ Otto e Mezzo Bombana o a Bottega nella categoria pizzerie. Ma in generale la ristorazione italiana in Cina non se la sta vivendo proprio bene. Tra i motivi c’ĆØ anche la carenza di cuochi italiani.
Nel 2019, da fonti ufficiali, erano presenti solo ad Hong Kong 800.000 espatriati pari a circa il 10% sul totale della popolazione, mentre a fine 2022 ne erano presenti il 4,6% (complice anche l’abolizione di alcuni tipi di visti). Ć evidente che questo esodo abbia condizionato anche il settore alimentare e della ristorazione. Il problema ĆØ che la Cina non rappresenta più una destinazione attrattiva. Quali sono le ragioni di questa disaffezione verso la Cina? In primo luogo il timore che quanto accaduto, soprattutto nel 2022, possa ripetersi; a parte il famoso look down, vi sono stati casi, non rari, dove per un cliente che entrava a consumare, il locale poteva essere chiuso per alcuni giorni se lo stesso cliente fosse stato riconosciuto positivo.
La seconda ragione ĆØ la difficoltĆ di reperimento dei prodotti italiani in quanto, da un lato, alcuni importatori o distributori hanno cessato lāattivitĆ ; dallāaltro, conseguenza diretta, i prezzi di listino sono aumentati e la ristorazione media non può sostenere questi costi. Nellāultimo periodo se si vuole utilizzare alcuni prodotti italiani bisogna essere preparati a spendere 100 euro al chilo per il guanciale, altrettanto per un cotechino e 225 euro al chilo per un culatello di Zibello, per non parlare delle latte di olio di oliva da 5 litri a 46 euro. Se poi si aggiunge la difficoltĆ di reperire prodotti ittici freschi dal Giappone (la Cina ha sospeso lāimport di cibo dal Giappone), la scelta si riduce a produzioni locali o congelate, o ancor peggio ai prodotti italian sounding.
Inoltre c’ĆØ una crescente difficoltĆ nella gestione di staff cinesi che non sempre seguono pedissequamente le istruzioni dello chef nella preparazione dei piatti in cucina, forse per un rinato sentimento nazionalista, e infine la retribuzione che oggi ĆØ inferiore rispetto ad altre realtĆ geografiche. Negli ultimi nove mesi le offerte del mercato del lavoro rivolte a chef italiani si sono orientate per il 60-70% su Singapore, sugli Emirati Arabi Uniti (in particolare Dubai) e qualche richiesta arriva pure dall’Egitto, dal Vietnam e dalle Mauritius. Le offerte riguardano non solo executive chef ma anche profili intermedi. Tutto questo potrebbe significare un passo indietro nella promozione della nostra tradizione gastronomica in Cina.
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