Le immagini della cerimonia di Torino sono ancora nitide. Le sciarpe rosse e viola dei cuochi con 32 gradi esterni, l’aperitivo scarno e asettico, la suspence coltivata con precisione, Rasmus Munk – lo chef di Alchemist – che smadonna al telefono pochi istanti dopo la premiazione. Poi, un after party memorabile con Bottura superstar e un ispirato Benny Benassi in console, al ritmo di tortellini con la panna e la pizza fritta di Franco Pepe. The World’s 50 Best Restaurants offre una rappresentazione teatrale senza eguali. Il mondo gastronomico così, tutto insieme, non lo ritrovi da nessun’altra parte. E l’atmosfera che si crea è del tutto particolare.
Tra le trattorie e i wine bar di Torino si è respirato un clima raro. La community della 50 Best esiste eccome: persone del settore da tutto il mondo che si salutano come se fossero compagni di banco dalle elementari. “Vedrai che circo”, dicevano. E in un certo senso avevano ragione. PR che abbracciano chef, che abbracciano giornalisti, che brindano con comunicatori. Un contesto internazionale che stuzzica lo spirito nazionale. Come ai Mondiali. Lo abbiamo toccato con mano anche in un pranzo da Crippa condito da un sontuoso omaggio alla viticoltura di Langa con tanti chef e giornalisti a lodare i sapori italiani. Quei registri che la classifica, per chi l’ha letta da vicino, sembra sottovalutare in maniera netta.
Impeccabili nella presentazione Alice Mulinacci e William Drew. Quest’ultimo in un’intervista al Gambero Rosso lo aveva detto chiaro: “Non è una guida, è una classifica”. E come tutte le classifiche, non spiega: ordina, titola, comunica. In una società con la soglia d’attenzione ridotta a 5 secondi, questa semplificazione funziona: “il migliore del mondo”, “il migliore d’Europa”. Non dà voti ma posizioni. Il numero diventa verità. E viaggia veloce.
Ma il punto è un altro. Abbiamo analizzato tutti i menu degustazione dei 50 ristoranti in lista. La spesa media sommando i menù cibo e pairing? Circa 500 euro a testa. È più di uno stipendio medio mensile in alcuni paesi toccati. Con punte che superano i 2.200 euro (Alchemist, Copenaghen) e minimi sui 260 (Mérito, Lima). La domanda è semplice: che rapporto ha tutto questo con l’immaginario collettivo del cibo?
Una volta l’alta cucina rappresentava un sogno, ma relativamente accessibile, anche solo per una volta nella vita. Oggi è diventata una pratica identitaria da club esclusivo. Dove non si entra più solo per merito, ma per estrazione e disponibilità economica.
La nicchia si è fatta ancora più nicchia. E questo discorso vale anche per il vino. Le grandi etichette sono sempre più esterne alla memoria gustativa e culturale del paese di produzione: sono diventate bottiglie da investimento. Certo, alcuni chef – Bottura, Romito, Niederkofler – giocano anche su altri campionati, con progetti più accessibili. Ma la traiettoria è chiara: il grande racconto gastronomico globale si allontana ogni giorno di più dalla realtà quotidiana. È inevitabile, succede anche in altri settori, ma lo scarto economico è sempre più netto. Anche per questo la 50 Best è lo specchio (fedele) della sua società.
E poi c’è la foto. Quella ufficiale, con tutti i premiati sul palco. È ovviamente l’immagine di un’élite. A guardarla bene, manca però qualcosa: tra decine di volti premiati, la presenza di persone nere è quasi nulla. Come se la figura dello chef, nel 2025, fosse ancora patrimonio esclusivo di uomini, in nettissima prevalenza (succede ancora anche con le guide del Gambero o della Michelin), e bianchi. Occidentali o asiatici, ma bianchi. Non è un errore di valutazione: è lo scatto esatto di una società per pochi. Globale ma non esattamente inclusiva.
Dopo aver preso parte a questa grande celebrazione, il dubbio è lecito: è davvero questa la classifica, e la narrazione, che l’Italia del cibo deve scalare?
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