La (nuova) crisi del Canale di Suez può costare cara al cibo italiano: a rischio prodotti freschi e frutta

23 Gen 2024, 18:24 | a cura di
Da quando i ribelli Houthi sono intervenuti nella crisi in Medio Oriente, nessuno attraversa a cuor leggero il Canale di Suez. Lo stretto – lungo 193 chilometri e largo 285 metri – è strategico nelle rotte commerciali mondiali, incluse quelle italiane

Da quando i ribelli Houthi sono intervenuti nella crisi in Medio Oriente, nessuno attraversa a cuor leggero il Canale di Suez dove il gruppo islamico radicale yemenita intraprende vere azioni di pirateria. Lo stretto – lungo 193 chilometri e largo 285 metri – che unisce Mediterraneo e mar Rosso, è strategico nelle rotte mondiali: «Dal canale di Suez si calcola che transiti il 12% del commercio mondiale, e rappresenta il 30% del volume dei container del trasporto marittimo internazionale» fanno sapere da Cia Agricoltori Italiani, che con oltre 900mila iscritti è una delle maggiori organizzazioni agricole professionali europee. Le ricadute di questa crisi mettono in allarme i nostri produttori: «il commercio agroalimentare risulta particolarmente esposto sia nelle esportazione che nelle importazioni».

dicembre export - Commercio vino - foto jcomp - it.freepik.com

La (nuova) crisi del Canale di Suez

Per avere una misura del danno di questo stallo - oggi, secondo i dati di Confagricoltura, attraversano ogni giorno solo 200/250 navi rispetto alle abituali 400 - basta tornare indietro al 2021, quando una nave si incagliò bloccando il traffico con una perdita che l'agenzia Bloomberg stimò di quasi 10 miliardi di dollari al giorno; in realtà quello era il valore delle merci in transito nei due sensi di marcia che poi sarebbero state in gran parte consegnate, se pure in ritardo, ma era un valore che non teneva conto delle ricadute, come l'aumento del prezzo del petrolio (tra le merci bloccate da quella circostanza) e l'impennata dei costi di una spedizione diventata molto più lunga del previsto.

Già all'epoca emergeva con evidenza la necessità da parte delle aziende di mettere al riparo la loro catena di approvvigionamento e distribuzione da rischi legati a diversi fattori, non ultimo quelli del passaggio in una zona dalla forte instabilità geopolitica. Oggi il mondo si trova di nuovo nella condizione di trovare un'alternativa a Suez; da qualche tempo c'è chi guarda alla rotta artica, complice anche il cambiamento climatico che renderebbe accessibili queste acque per un tempo maggiore rispetto a qualche decennio fa, ma con conseguenze ambientali ancora tutte da valutare.

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L'export italiano

«L’Italia è tra i Paesi più esposti in seguito al blocco del transito delle navi nel canale di Suez», spiega Giordano Emo Capodilista vicepresidente Confagricoltura. Il 40% dell'export italiano passa dal canale, compreso quello agroalimentare.

Secondo le stime di Cia, che fa riferimento all'anno 2022, l'export verso l'Asia vale 6,13 miliardi di euro tra prodotti agricoli, cibi e bevande, di cui oltre 5,5 miliardi di euro – ovvero il 90% - di prodotti dell’industria agroalimentare. Le esportazioni agricole hanno invece rappresentato il 10% per un totale di poco superiore ai 600 milioni di euro. C'è poi il vino che con 590 milioni di euro è stato il prodotto italiano agroalimentare più veduto in Asia, seguito da confetteria e prodotti a base di cacao e cioccolato (per quasi 400 milioni di euro) e da ortofrutta trasformata (oltre 425 milioni di euro).

Pompelmo e arancia a confronto

La gestione del prodotto fresco

Gli esportatori di fresco si trovano di fronte al problema di come gestire i carichi: da una parte le compagnie che decidono per la traversata registrano un'impennata dei costi delle assicurazioni, dall'altra chi rinuncia al passaggio per il canale cerca altre rotte per raggiungere l'Oriente, puntando al Capo di Buona Speranza per continuare il viaggio intorno all'Africa e dirigersi poi verso i porti di destinazione. Ma non è così semplice.

Circumnavigare l'Africa per raggiungere l'India o la Cina implica un tempo di navigazione molto più lungo, almeno di due settimane, con un conseguente aumento dei costi di trasporto (6.000 miglia in più con una spesa di circa 300.000 mila dollari solo di carburante). Qualcuno stima un aumento dei costi fino a 1.500 dollari a container (spalmati sono fino a 10 centesimi ai chilogrammo di merce), ma non è finita qui: due settimane in più di viaggio sono un lusso che alcuni prodotti non possono permettersi. Pena una perdita di qualità.

La conseguenza diretta è: prodotti meno freschi e prezzi meno concorrenziali. Cosa che aprirebbe la porta ai nostri diretti competitor. Il marchio made in Italy è abbastanza forte da reggere la botta? «Non lo so» risponde Emo Capodilista: «con costi maggiori gli equilibri di mercato sono falsati e poi c'è il problema di velocità della consegna che è molto rilevante. Questa crisi - continua - va a pesare su una stagione già difficile per via della siccità, in un momento in cui l'inflazione stava finalmente scendendo, e che ora potrebbe rimettersi in moto».

Tra i problemi collaterali della crisi, oltre alla poca competitività dei nostri prodotti, c'è anche un altro tema: «la perdita di centralità dei porti italiani che sono una via diretta su Suez» aggiunge Emo Capodilista. E già i maggiori scali italiani sono in allarme. Consigli ai vostri associati «Personalmente starei molto attento a consigliare a qualcuno di continuare il tragitto lungo il Canale di Suez: è meglio che la merce arrivi in maniera sicura. Poi ci sono molte variabili: ci sono alcune compagnie che sembrano più attaccate di altre, per esempio le compagnie americane, mentre pare che alcuni prodotti, come quelli legati al comparto energetico, siano più sicuri. Ma nulla è certo». Ci sono soluzioni alternative? «No, non ci sono tante soluzioni». Anche se ci si rivolgesse al transito ferroviario, i costi aumenterebbero. «Speriamo solo che l'Unione europea sia coesa nelle decisioni per difendere i comparti e prenda una posizione con voce autorevole; per ora si sono mosse Inghilterra e America».

L'import agroalimentare

Nelle export di prodotto fresco, il grosso lo fa la frutta, soprattutto agrumi, mele e kiwi, che hanno un buon mercato in Medio Oriente e nel Sud Est Asiatico. E se i comparto di mele e kiwi sono in allarme, più sereno pare quello degli agrumi; è il caso dell'Arancia Rossa di Sicilia: «Gran parte del nostro prodotto è diretto in Italia e in Europa: Austria, Germania, Francia, Svizzera e poi i paesi del nord, Svezia e Norvegia, sempre più interessati al prodotto pigmentato, per le sue caratteristiche uniche» dice Gerardo Diana, presidente del Consorzio.

Il problema si riscontra invece nell'import di altre materie prime, concimi e prodotti per le aziende che serviranno in un secondo momento: i produttori sono alle prese con la raccolta e con la mancanza di mano d'opera. Anche il centro studi Cia – Agricoltori Italiani, segnala che il problema non è solo in uscita delle merci ma anche in entrata. Sempre assumendo come anno di riferimento il 2022, tra esportazioni e importazioni con l'intero territorio asiatico, la bilancia agroalimentare Made in Italy ha chiuso in attivo per un valore superiore agli 850 milioni di euro, con una quota import di circa 5,2 miliardi di euro. Di questi un terzo è agroalimentare, con olio di semi oleosi in cima al Made in Asia più importato, seguito da pesci, crostacei, molluschi lavorati e conservati, al terzo posto le piante usate per la produzione di bevande. Prodotti con la cui mancanza occorrerà fare i conti presto, se la situazione non si sbloccherà.

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