Nel fumoso e spesso troppo modaiolo mondo della ristorazione italiana, oggi l’offerta è cangiante e diversificata, ma sono pochi i progetti imprenditoriali di spessore, fatti di idee e investimenti degni di nota. Abbiamo incontrato Davide Ciancio, giovane CEO e co-fondatore con Leonardo Maria Del Vecchio di Triple Sea Food, gruppo italiano attivo nella ristorazione e nell’hospitality con sedi a Milano, Portofino, Versilia, Porto Cervo e Monaco.
Davide Ciancio (al centro) con gli chef di Casa Fiori Chiari. In alto con Del Vecchio e lo chef di Trattoria del Ciumbia
Attivo su più progetti accanto all’imprenditore Leonardo Maria Del vecchio, è una voce diventata di rilievo nel settore, che abbiamo voluto ascoltare per avere un punto di vista imprenditoriale sulla ristorazione italiana, partendo proprio dalla sua Milano, capitale gastronomica italiana.
Davide Ciancio, 39 anni, è uno dei più importanti manager della ristorazione. Non possiamo non chiedergli subito quali siano state le sue giuste mosse… «Ho guardato tanto, ho ascoltato, mi sono appassionato, ho commesso errori e ho tratto proprio da quelli i più grandi insegnamenti – risponde il manager – Durante la pandemia scrissi un messaggio a mio padre, che oggi non c’è più. Avevo paura di non riuscire a concretizzare tutte quelle che erano sempre state le mie idee, i miei sogni. Questa cosa non mi andava giù. Lui però mi fece capire che non era il momento di abbattersi, anzi, che proprio nei momenti difficili si possono aprire grandi opportunità. Allora, appena ho potuto, la mossa è stata volerci provare fino alla fine. E così ho incontrato chi ha creduto in me. Leonardo Maria Del Vecchio e Marco Talarico sono stati i primi a farlo, e soprattutto avevano più voglia di fare di me. Il che era difficile. Leonardo mi ha insegnato cosa significa costruire un’azienda, non solo un ristorante. A dare priorità alle persone, a strutturare un’organizzazione, perché la vera forza è data dal team, dalle persone che ti circondano. Marco mi ha aiutato a non avere paura di prendere decisioni. Poi ha giocato la visione, l’ossessione, il voler concretizzare. Per me questo non è mai stato un lavoro, più una missione. Faccio quello che mi piace e voglio lasciare un segno».
Qual è l’assetto del gruppo Triple Sea Food?
«Il gruppo oggi è un sistema con tre brand. Vesta è la madre. È da lì che è partito tutto. Una cucina di mare con radici nel Mediterraneo e materie prime eccellenti provenienti da tutto il mondo. Un cocktail bar importante, un ritmo internazionale in Brera, nel cuore di Milano. Casa Fiori Chiari è la nostra visione del classico ristorante italiano: accogliente, caldo, dall’anima partenopea. La pizza? Un piatto da condividere. Trattoria del Ciumbia parla il milanese moderno. Una cucina tradizionale in un ambiente che esprime l’importanza di questa città nel mondo del design, grazie ai suoi creatori, Dimore Studio.
Abbiamo creato un distretto nella stessa via, via Fiori Chiari. Tre esperienze diverse, ma connesse. Tutti i locali si appoggiano a un unico laboratorio: stessa qualità, logistica efficiente, costi ottimizzati. È come una maison con tre collezioni. Cambia lo stile, ma la firma è la stessa».
E quello delle nuove acquisizioni? Ci dà una panoramica di tutto ciò che oggi possedete e su cui state lavorando?
«Oggi entra nella nostra galassia il brand Twiga, con le sue sedi a Monte Carlo, Baia Beniamin, Versilia, Porto Cervo e presto anche Milano. Con Twiga ci allarghiamo all’intrattenimento, dopo aver lavorato su ristorazione e beach club. Il nostro obiettivo è coprire tutti i rami dell’hospitality, ma con il nostro vibe, con la nostra visione. Ci piacerebbe, prima o poi, arrivare anche nell’hotellerie.
A Milano abbiamo Vesta, Casa Fiori Chiari e Trattoria del Ciumbia. A settembre arriverà Twiga Milano. Nella baia di Paraggi c’è Vesta Portofino. A Monaco, Twiga e Vesta Monte Carlo. E nella vicina Ventimiglia, Twiga in versione beach club. In Versilia ci siamo con Casa Fiori Chiari, Twiga e Vesta, tutti in versione beach. Mentre a Porto Cervo arriveremo con Twiga, Vesta e Casa Fiori Chiari, tutto in un’unica location divisa in vari spazi su più livelli. Insomma, tanta roba. E per il futuro stiamo già programmando nuove aperture nel 2026».
Un piatto a base di polpo di Casa Fiori Chiari in Versilia
Leonardo Maria Del Vecchio da tempo sta investendo nella ristorazione. Le sue mosse sono state tutte giuste?
«Ha investito in un settore che rappresenta una delle nostre grandi eccellenze. L’ha fatto portando energia e visione in un mondo spesso poco incline al cambiamento. Ha scelto di investire nel suo Paese e nel suo immenso potenziale, entrando in un’industria dove in pochi hanno il coraggio di strutturare davvero. Non si è limitato a finanziare, ha dato forma a un nuovo modello. Ha spinto noi a ragionare in grande, a costruire in modo solido e su scala. Ha introdotto un linguaggio manageriale, concreto. E non lo ha fatto da spettatore. Ha voluto capire tutto: numeri, operations, qualità, ambiente. Non investe per moda, investe per costruire un sistema. Per creare nuovi posti di lavoro, per portare le persone a vincere con lui».
Qual è il modello italiano vincente nella ristorazione?
«Non credo ci sia un solo modello vincente. Ma credo che la ristorazione italiana debba dominare questo settore. Perché sappiamo fare ospitalità, perché abbiamo una cultura gastronomica straordinaria, perché abbiamo gusto. Quello che ci manca è la capacità di fare sistema. Siamo spesso bravissimi da soli ma incapaci di costruire insieme. Ed è proprio questo che fa la differenza quando vuoi competere a livello internazionale. Dobbiamo uscire dai nostri confini e portare l’Italia nel mondo».
E cosa è stato vincente nei vostri locali in via Fiori Chiari? I conti tornano?
«Siamo partiti con un’idea molto chiara: puntare su un sistema. Creare tre concept completamente diversi. Diverse cucine, diverse esperienze, diversi posizionamenti. L’obiettivo era valorizzare una via intera e la sua proposta gastronomica, rendendola un punto di riferimento. Abbiamo un unico laboratorio per tutti i locali, una logistica efficiente, zero sprechi, qualità costante. I ricavi dei tre ristoranti nella via, nel 2025, sfioreranno i 20 milioni. Ma il vero successo è vedere ogni giorno quella via riempirsi, vederla viva. Penso che oggi via Fiori Chiari, insieme ai nostri ristoranti, rappresenti un vero punto di riferimento per i milanesi e per chi visita la città».
La cucina fine dining è morta come si dice?
«No, non è morta. E non morirà mai. Va solo ripensata. I tempi sono cambiati e la ristorazione oggi sta evolvendo in fretta. Deve diventare più sostenibile. Per la qualità della vita delle persone e per i conti delle aziende. Non basta più essere bravi in cucina. Serve equilibrio, ritmo. Ma soprattutto bisogna offrire un’esperienza coinvolgente. Il fine dining è il vertice della piramide, ma deve parlare una lingua nuova, altrimenti rischia di restare un esercizio per pochi».
Milano città delle opportunità o tagliateste spietata? Come si fa a emergere qui?
«È tutte e due le cose. Milano ti dà tanto, ma ti perdona poco. È una città che ti osserva, ti giudica e poi ti concede una sola possibilità. E se sbagli il passo, diventa dura. Per emergere qui devi creare soprattutto qualcosa di vero. Devi offrire un’esperienza concreta, tutto deve funzionare: cibo, bevande, ambiente, comfort, illuminazione, acustica, servizio, ritmo. La differenza la fanno sempre le persone, e la loro arma più potente: il sorriso. Tutti i tasselli del puzzle devono essere al posto giusto. Perché a Milano, se lasci il segno, può catapultarti su scenari internazionali. È una grande vetrina».
Emergenza personale: c’è vera carenza?
«Le persone ci sono. Ma vanno rispettate, ascoltate, motivate. Chi lavora nella ristorazione deve avere lo stesso ambiente, gli stessi diritti e gli stessi benefit dell’amico che lavora in una grande multinazionale, in finanza o in una tech company. Negli anni qualche errore è stato fatto e oggi bisogna rimediare. Per me è un lavoro bellissimo. Bisogna far rinnamorare le persone di questo settore, renderlo sostenibile, umano. E andare sempre più incontro a quello che cercano i ragazzi. Perché, ripeto, sono il nostro valore più grande. Senza di loro non esistiamo. Noi oggi siamo in tanti e questo è un grande motivo di orgoglio».
A livello di impresa, quali sono secondo lei i migliori ristoranti di Milano e quali i peggiori?
«Stimo profondamente chi riesce a farcela, perché non è per niente facile. Chi riesce davvero a trovare un equilibrio merita rispetto e per fortuna, a Milano, ce ne sono tanti. Fare impresa in questo settore richiede tanto sacrificio e costanza. Chi riesce a farlo sul serio ha tutta la mia stima. Esistono realtà importanti come i fratelli Liu, Giacomo, Langosteria, El Porteno. I peggiori? Quelli che nascono solo con il presupposto di un exit, mossi unicamente dall’idea di monetizzare. Quelli che non danno importanza alla qualità della materia prima, come se il cibo fosse un dettaglio. Quelli che non danno il giusto valore ai propri dipendenti, facendo calare la percezione di questo mestiere».
I suoi posti del cuore?
«Posti del cuore? Difficile dirlo. Negli ultimi anni sono stato praticamente rinchiuso in via Fiori Chiari. Avrei voluto fare più esperienze. Amo la cucina asiatica di Gong e Bon Wei. Trattoria de la Trebia per la carne. Fuori Milano mi piacciono Ai Due Platani a Parma e Lorenzo a Forte dei Marmi. Da Vittorio: la famiglia Cerea è la testa di serie della ristorazione italiana. Desde1911 a Madrid, Zuma Mykonos e tanti altri. Poi ognuno ha i suoi gusti, ognuno ha le proprie esigenze. Quello che non piace a me può piacere a qualcun altro».
Se fosse l’uomo più ricco d’Italia, che investimenti farebbe?
«Se fossi stato io l’uomo più ricco d’Italia avrei fatto quello che sta facendo Leonardo Maria Del Vecchio. Avrei investito in Italia, costruendo valore e creando opportunità per tante persone. Proprio come è stato fatto con me. Ma le dico la verità: più che immaginare cosa farei, penso a quello che sto, anzi, che stiamo già facendo. Che non è poco. Poi certo… magari mi compravo la Juve! Di sogni ne ho ancora tantissimi. Con coerenza, ambizione e rispetto per le persone che ogni giorno rendono tutto questo possibile, spero un giorno di arrivare a guidare il gruppo leader dell’hospitality italiana».
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