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Cultura queer

Il lato LGBTQ+ della cucina: dai brunch drag ai bar transfemministi, storie di attivismo e identità

Nella cultura LGBTQ+, il cibo ha rappresentato molto più di un semplice bisogno: è stato uno strumento per creare legami, affermare la propria identità e trasformare la quotidianità in uno spazio di espressione politica e affettiva

  • 04 Giugno, 2025

Il cibo è queer? Se lo chiede John Birdsall nel saggio America, Your Food Is So Gay, pubblicato su Oxford American nel 2013. La sua tesi non riguarda gli ingredienti, ma ciò che il cibo rappresenta: una forma di espressione, di relazione, di identità. Nella cultura queer, la tavola ha spesso rappresentato molto più di una semplice necessità fisiologica. Dalle cene clandestine nei bar gay degli anni ’60 ai brunch drag contemporanei, dalla cucina improvvisata nelle house ballroom alle bottiglie condivise sui marciapiedi di Porta Venezia, la convivialità ha offerto spazi sicuri, affettivi, politici. Sedersi a tavola con chi ti riconosce, cucinare per chi condivide la tua esperienza del mondo, significa costruire alleanze.
Sedersi a tavola con chi ti riconosce significa costruire una rete affettiva, politica e culturale: un gesto quotidiano che può diventare rivoluzionario.

New York, anni ’60–’70: bar e ristoranti come spazi nascosti

Negli anni ’60, New York era un luogo di contraddizioni per la comunità LGBTQ+. Mentre la città offriva una relativa libertà rispetto ad altre aree degli Stati Uniti, le leggi e le pratiche discriminatorie erano ancora pervasive. Il Stonewall Inn, situato al 53 di Christopher Street nel Greenwich Village, divenne un rifugio per molti. Gestito dalla mafia, operava come “club privato” per eludere le restrizioni della State Liquor Authority, che vietava la vendita di alcolici a persone LGBTQ+. L’ingresso richiedeva il superamento di un buttafuori, il pagamento di una quota e la firma di un registro, creando un senso di esclusività e sicurezza apparente.

Tuttavia, le frequenti retate della polizia e le condizioni precarie del locale riflettevano la vulnerabilità della comunità. Nonostante ciò, il Stonewall Inn rappresentava un luogo dove le persone queer potevano ballare, socializzare e sentirsi parte di una comunità, gettando le basi per le rivolte del giugno 1969 che avrebbero segnato una svolta nel movimento per i diritti LGBTQ+.

The Stonewall Inn New York - Wikimedia Commons

The Stonewall Inn New York – Wikimedia Commons

Luoghi come questo, seppur imperfetti, offrivano anche piccoli momenti conviviali: cocktail annacquati, patatine condivise, una pizza divisa tra amici. Anche quel cibo era parte della costruzione di uno spazio proprio.

La Ball Culture e il cibo come collante

La Ball Culture, nata nella New York del primo Novecento e sviluppatasi negli anni ’60-’90 in contesti urbani marginalizzati, è stata molto più che una sottocultura legata alla moda e alla danza. Per moltissime persone queer, in particolare afroamericane e latine, rappresentava una forma di sopravvivenza simbolica e materiale, uno spazio in cui essere se stesse, sfilare, creare, trovare una famiglia. Le “Houses”, cioè le famiglie alternative che prendevano parte ai ball, erano strutture affettive e organizzative rette da “mothers” e “fathers”, figure di riferimento che accoglievano giovani cacciati di casa o in fuga da contesti ostili. In questo sistema, il cibo aveva un ruolo fondamentale e sottovalutato: era gesto quotidiano, linguaggio di cura, e strumento per costruire comunità.

All’interno delle house, cucinare e mangiare insieme era un’attività centrale quanto provare i look o preparare i lip sync. Non si trattava solo di nutrirsi, ma di ritualizzare l’appartenenza, proprio come avviene in una famiglia biologica. Le “mothers” spesso si prendevano cura dei propri figli e figlie anche a tavola: cucinavano piatti semplici, a volte condividendo ciò che si riusciva a recuperare o comprare con pochi soldi. Soul food, pollo fritto, riso, stufati: era il cibo della tradizione afroamericana e portoricana, adattato alla precarietà, ma carico di valore affettivo e identitario.

Una delle scene più emblematiche in questo senso si trova nel documentario Paris Is Burning (1990) di Jennie Livingston. Tra le immagini più potenti c’è quella di Dorian Corey, leggenda della ballroom e drag mother storica, che si trucca con calma e precisione seduta al tavolo di casa mentre frigge del pollo in padella. La cucina è modesta, il trucco impeccabile, il tono della conversazione riflessivo. Dorian parla del tempo che passa, dell’importanza di sapere invecchiare con grazia, dell’accettare ciò che si è conquistato. Dice: “You know how you can tell a person’s life? By the way they fry chicken.” (Sai come si fa a capire la vita di una persona? Dal modo in cui frigge il pollo)
È una battuta lanciata con disinvoltura, eppure racchiude un intero mondo. Il pollo fritto non è solo cibo: è gesto di stile, è memoria, è il modo in cui si portano avanti le tradizioni, anche quando tutto il resto crolla. È cura queer che passa dalla cucina. Poco dopo, Dorian aggiunge: “You don’t have to bend the whole world. I think it’s better just to enjoy it. Pay your dues. Just enjoy it.” — mentre gira il pollo nella padella. È un momento intimo: il glamour e la saggezza, la sopravvivenza e il piacere, la cura di sé e quella per l’altra si fondono nel gesto quotidiano del cucinare. Il pollo fritto di Dorian Corey diventa simbolo della femminilità queer come rituale e rifugio.

In altre brevi ma significative sequenze del documentario, si vedono membri della House of Xtravaganza seduti sul divano o in cucina, a mangiare o bere insieme, mentre si preparano per i ball o scherzano. Quei momenti — quasi passanti, rispetto all’estetica scintillante delle sfilate — raccontano una realtà fatta di condivisione materiale: il cibo come collante familiare, come ancora di normalità in vite segnate da rifiuto, razzismo, transfobia. È importante ricordare che molti erano senzatetto, sopravvivevano grazie al sex work o alla solidarietà reciproca. In quel contesto, anche un piatto caldo poteva essere un gesto di amore, un atto politico.

Come sottolineano studiose come Madison Moore o Tavia Nyong’o, la Ball Culture non va intesa solo come un palcoscenico, ma come una struttura alternativa di welfare queer. E in questa struttura, la cucina aveva un ruolo strutturale: era ciò che costruiva coesione, alimentava la cura, riempiva i vuoti. In questo senso, il cibo nella cultura ballroom è performativo tanto quanto una passerella: non solo perché contribuisce alla messa in scena della vita queer, ma perché dichiara che la sopravvivenza è glamour.

Se Paris Is Burning ha il merito di aver portato alla luce questa sottocultura, le sue sequenze legate al cibo restano ancora oggi documenti preziosi. Non solo perché mostrano cosa si mangiava o come si mangiava, ma perché ci ricordano che in ogni cena improvvisata una rivendicazione di famiglia, e in ogni gesto quotidiano della tavola queer un’affermazione profonda: esistiamo, ci prendiamo cura l’una dell’altro, e vogliamo piacere, anche a noi stessi.

Gli anni ’80–’90: AIDS, cucina e attivismo

Con l’esplosione della crisi dell’HIV/AIDS negli Stati Uniti, a partire dai primi anni Ottanta, la comunità LGBTQ+ si trovò di fronte non solo a una devastazione sanitaria, ma anche a un abbandono istituzionale quasi totale. In risposta, nacquero ovunque forme di auto-organizzazione: gruppi di sostegno, reti di assistenza, momenti di cura reciproca.

Project Open Hand

Una delle realtà più emblematiche è Project Open Hand, fondata nel 1985 a San Francisco da Ruth Brinker, una casalinga e volontaria che iniziò a cucinare per amici malati di AIDS che non riuscivano più a nutrirsi da soli. Da lì, in pochi anni, l’organizzazione crebbe fino a servire migliaia di pasti al giorno, fornendo cibo gratuito, consegnato a casa da volontari. “We nourish and engage our community by providing meals with love” (Nutriamo e coinvolgiamo la nostra comunità offrendo pasti con amore) è tuttora il loro motto.

Cucinare diventò quindi un atto di militanza silenziosa, eppure potentissima. In tante città statunitensi si diffusero programmi simili, spesso portati avanti da donne lesbiche e da gruppi misti LGBTQ+ che univano risorse, tempo e competenze culinarie. In questo contesto, presero vita anche moltissimi cookbook autoprodotti, venduti per raccogliere fondi per le cure o i funerali di amici. Ricettari come Cooking with Pride (1989, Leatherella O. Parsons) contenevano non solo piatti, ma anche dediche, testimonianze e fotografie: diventavano memoriali cartacei per chi non c’era più e per chi stava ancora lottando.

Alcune di queste ricette erano espressamente pensate per persone con sintomi debilitanti, altre erano piatti della memoria queer: lasagne condivise in case occupate, pollo al curry servito nei banchetti delle raccolte fondi, biscotti a forma di cuore venduti alle fiere.

Come scrive lo storico David France nel suo libro How to Survive a Plague (2016), “la cucina era spesso l’unico spazio che rimaneva davvero nostro, quando tutto il resto – il lavoro, la casa, i corpi – era messo in discussione dalla malattia”. In quel decennio buio, il cibo divenne l’ultima frontiera della dignità. Non sorprende che ancora oggi molte organizzazioni queer in USA e Canada nascano attorno alla cucina: perché è lì che si ricostruisce il corpo collettivo, letteralmente.

Drag & Dining: tra performance e identità

Negli anni ’90, un nuovo formato conviviale cominciò a diffondersi nei locali LGBTQ+ di New York, poi in tutta l’America del Nord: il drag brunch. La formula era semplice, ma esplosiva: una domenica mattina (o primo pomeriggio), un locale serve uova, pancake, bloody mary e mimosa mentre sul palco (o tra i tavoli) si esibiscono drag queen in numeri musicali, balli e monologhi. In origine, il drag brunch nasce come evento di raccolta fondi – spesso per malati di AIDS, oppure per sostenere performer locali – ma rapidamente diventa un format popolarissimo. La sua forza sta proprio nella rottura di un rituale familiare e borghese come il brunch: invece di coppie etero e chiacchiere da mezzogiorno, ci sono glitter, battute sporche e corpi queer in piena luce diurna.

Uno dei primi locali a lanciare l’evento in modo stabile fu Lips a Manhattan, ancora oggi attivo, descritto dal New York Times come “un luogo dove il confine tra burlesque e cucina si dissolve in un bacio di panna montata”. A seguire, catene come Hamburger Mary’s resero il drag brunch un’istituzione nazionale, con varianti locali in tutti gli Stati Uniti. Negli anni 2000 il formato arriva anche in Europa, e oggi è attivo in molte città, da Londra a Parigi fino a Milano e Roma. Ma la domanda che si pongono in molte, oggi, è se questo formato sia ancora uno spazio liberatorio oppure se sia diventato un contenitore addomesticato, svuotato del suo valore radicale.

Come scrive Madison Moore, autore di Fabulous: The Rise of the Beautiful Eccentric (2018), “i brunch drag sono diventati le nuove chiese per una generazione queer. Ci si va per vedere ed essere visti, ma anche per celebrare l’arte dell’esagerazione come linguaggio di sopravvivenza.” Quando la performance incontra la tavola, l’effetto è potente: non è solo spettacolo, è un’espressione integrale dell’identità queer – che non si nasconde, ma si serve, si assaggia, si inghiotte, anche alle undici del mattino.

Arrivo in Europa – club, cabaret e ristoranti queer

Se negli Stati Uniti il cibo queer si è spesso intrecciato con la necessità – sopravvivenza, assistenza, mutualismo – in Europa l’interazione tra convivialità e cultura LGBTQ+ ha seguito percorsi diversi, spesso legati al mondo dell’arte, del cabaret e della trasgressione notturna. Una delle città simbolo di questa storia è Berlino, soprattutto negli anni ’20 del Novecento: il periodo della Repubblica di Weimar vide la nascita di club e bar apertamente omosessuali, trans-friendly, e gestiti da una scena culturalmente audace. Il più noto era l’Eldorado, in Motzstraße, dove si esibivano drag queen, travestiti, cantanti queer.

Berlin: Das Vergnügungsetablissement “Eldorado” an der Ecke Motz- und Kalckreuthstraße.
(Aufn.: 1932)
12933-32

Era allo stesso tempo ristorante, cabaret e zona franca, dove si mangiava, si beveva, si assisteva a spettacoli satirici e si danzava con abiti del sesso opposto. In quel contesto, la tavola era parte della messa in scena: le cene erano momenti spettacolari, estetizzati, politicizzati.

Con l’ascesa del nazismo, tutto questo fu distrutto. I locali furono chiusi, le persone schedate, molte deportate. Ma il ricordo di quella stagione è rimasto nella memoria LGBTQ+ europea come un’epoca di libertà fragile ma reale. E oggi, in molti locali berlinesi come il Roses, il Südblock o il Tipsy Bear, si riprende consapevolmente quell’eredità: cocktail e spettacoli, cene performative, brunch queer in spazi inclusivi e dichiaratamente politicizzati.

Anche a Londra, soprattutto a Soho e Shoreditch, la cultura del ristorante queer ha preso piede negli ultimi vent’anni. Luoghi come Dalston Superstore o il Glory sono pub, club e allo stesso tempo cucine notturne: si mangia tra un DJ set e un drag show, si prenotano cene “bottomless” in cui l’esperienza diventa anche affermativa, identitaria, rumorosa. In questi ambienti, il cibo non è marginale: è parte della performance.

Milano, Porta Venezia: il quartiere dove si mangia con orgoglio

Se esiste un luogo in Italia dove il cibo queer ha trovato una forma urbana riconoscibile quel luogo è Porta Venezia. A Milano, il quartiere storico della comunità LGBTQ+ — da sempre punto di incontro tra classi, origini, desideri e linguaggi diversi — ha visto negli ultimi dieci anni un’intensificazione della vita sociale queer, anche attraverso la tavola. Qui ristoranti, bar, club e spazi ibridi hanno iniziato a modellarsi come ambienti apertamente inclusivi, non solo per il pubblico, ma spesso anche per lo staff, la proprietà, la proposta culturale.

Non si tratta di locali a tema, ma di spazi dove l’identità queer è normale, diffusa, vissuta. Prendiamo il caso di Don’t Tell Mama, il primo drag bar d’Italia, aperto nel 2023 in via Varanini (NOLO). Ricavato da una ex macelleria araba, è insieme cocktail bar, cucina con tapas e locale di spettacoli drag, stand-up, burlesque. Il menù cambia spesso e non è un pretesto: il cibo è pensato per accompagnare lo show, ma anche per permettere una pausa, un dialogo, un flirt tra un numero e l’altro. E nel cuore del quartiere, ogni sera, prende vita un piccolo “cabaret contemporaneo”.

Don’t tell mama

Un’altra realtà che per diversi anni è stato appuntamento fisso è il Queer Food Village, che si teneva ogni domenica al Mercato Comunale Isola, a due fermate di metro da Porta Venezia ma frequentato dalla stessa comunità. Lo spazio del mercato si trasformava in una piazza queer all’aperto: banchi gastronomici, drag show, karaoke, dj set, famiglie arcobaleno, gruppi di amici, corpi mescolati
Anche i locali non esplicitamente LGBTQ+ di Porta Venezia partecipano a questo tessuto sociale. Il bar Mono, da sempre considerato queer-friendly, o l’Atomic Bar, storico punto di ritrovo per generazioni di lesbiche e ragazze gender non-conforming, hanno accompagnato i cambiamenti del quartiere senza perdere la propria anima.
Un presidio fondamentale nel tessuto di Porta Venezia è anche il POP, bar transfemminista e queer nato nel 2018 come caffetteria e oggi attivo soprattutto di sera. La scritta al neon “Feminist” campeggia ancora sulla parete centrale, ma ora è stata affiancata dalla parola “Trans”. I tavoli li servono anche persone transgender, i dibattiti spaziano dal sex work all’antispecismo, e l’inclusività non è solo di facciata — è anche economica. I drink costano 5 euro, non c’è obbligo di consumazione, e la comunità più giovane trova un rifugio reale.
Ma il vero ingrediente che rende Porta Venezia un laboratorio queer di convivialità è la sua permeabilità sociale. Il Pride non è qui solo a giugno: si balla, si cena, si condivide tutto l’anno, spesso in strade e piazze più che in locali chiusi. È un quartiere che cucina la propria visibilità con calma e ironia, senza mai scindere il gusto dal gesto politico. Perché qui, come altrove, mangiare insieme è già affermare un’identità.

Cibo e appartenenza

Mangiare è un gesto quotidiano. Ma, per molte persone queer, può diventare anche un atto pubblico, sovversivo, performativo. Nella cultura LGBTQ+, la tavola non è mai stata solo un luogo di passaggio: è uno spazio relazionale, una dichiarazione di esistenza. Condividere un piatto, cucinare per qualcuno, farsi invitare a cena in una casa scelta e non imposta: sono tutti gesti che sfidano l’isolamento, rivendicano il diritto alla gioia, alla cura, all’eccesso. In un’epoca in cui anche il Pride rischia di essere assorbito dal marketing, è proprio nel quotidiano che la cultura queer continua a produrre immaginari alternativi. Spesso lo fa senza nemmeno volerlo. Se la famiglia è anche quella che si sceglie, allora anche la cucina è quella che ci si costruisce. E non importa quanto sofisticata o improvvisata sia: ciò che conta è che sia libera.

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