Chissà perché qualcuno, a un certo punto della nostra epoca grama, ha deciso che i taralli fossero quelle ciambelline pugliesi traslucide, buone ma non buonissime, che ormai ti rifilano pure sui treni ad alta velocità come snack ingannastomaco. No, non ci cascate: il vero tarallo, quello buono e pure buonissimo, è quello napoletano, fatto con la ‘nzogna (lo strutto, all’anagrafe), tanto pepe e le mandorle intere. E che è intrecciato in un anello di rispettabili dimensioni, quasi un pugno chiuso, per cui ne mangi al massimo uno, altro che i nanerottoli pugliesi che si devono mettere in sette-otto-nove per lasciare una traccia nel nostro aperitivo.
Va detto che il tarallo napoletano, che qualche anno fa viveva la sua onesta trascuratezza, ha ripreso vigore negli ultimi anni e qualche tarallificio napoletano ne ha fatto un business. Anche a Milano ci sono negozi che li vendono a prezzi niente affatto giustificati dalla modestia degli ingredienti: un tarallo arriva a costare 1,60 euro, roba che un tempo te ne portavi a casa un chilo per pochi soldi in più. Ma a Napoli la tradizione induce a diffidare delle tarallerie gentrificate di cui ormai è pieno il centro cittadino irreversibilmente turisticizzato.
A Napoli gli “avvertiti” e i local i taralli li comprano negli chalet di Chiaia e di Mergellina, certi baracchini che se la giocano da bar e che espongono la scritta “taralli caldi”. Ce n’è uno in via Caracciolo, in una curva della strada, un posto tutto neon che sembra pronto a una sagra di paese, così ignaro di ogni sospetto gourmet da apparire irresistibile. È una valida esperienza comprarne qualcuno, di quelli che il banconista pesca da chissà dove là dietro, e dopo essersi assicurati la complicità di una lattina di una birra qualsiasi, purché ghiacciata, sgranocchiare il bottino di questa compravendita furtiva guardando il mare davanti, il Vesuvio sulla sinistra, Posillipo sulla destra, sentendomi parte di una cartolina vivente. Tanti saluti da Napoli!
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