Dopo aver proposto una bella anteprima qualche giorno fa ed essere stati i primi ad entrare con delle telecamere dentro la struttura, oggi, a poche ore dall’inaugurazione, è il tempo di ipotizzare una riflessione più posata e profonda sull’apertura a Bologna di Fico – Eataly World. Del resto si tratta del parco a tema dedicato all’alimentazione e all’agroalimentare più grande del mondo e sarà, siamo pronti a scommetterci, oggetto di dibattito diffuso nei prossimi mesi. Ma il progetto è gigantesco e dunque difficile da contenere nelle definizioni. Come tutte le cose grandi, ciascuno si sta facendo la propria idea di cosa davvero sia Fico e dunque non è superfluo elencare in primo luogo cos’è questa nuova realtà e da dove viene.
Fico - gli esterni
Fico. Cos’è e da dove viene
Fico viene da un bisogno. Un bisogno pubblico, amministrativo. C’era una volta il Centro Agro Alimentare di Bologna (CAAB) in una zona periferica della città. Pensato negli anni Settanta come piastra logistica, aprì negli anni Novanta quando già il business in quel settore stava cambiando e divenne presto superato. Il Comune di Bologna, socio di maggioranza della struttura, aveva un problema: a differenza di altri comuni italiani, quello felsineo decise di non lasciare la patata bollente all’amministrazione successiva e provò a farsi venire idee per risolvere. Fico nacque “cittadella del cibo”, o qualcosa del genere. Eravamo nel 2012, primo cittadino di Bologna era già Virginio Merola, un amministratore in gamba e decisamente concreto. “Dobbiamo fare un grande contenitore sul cibo, perché non chiamiamo Farinetti, guardate cosa ha combinato con Eataly!?” devono essersi detto il sindaco e i suoi collaboratori. E così andò. Oggi Eataly, come tutte le aziende che si occupano di retail e di grande distribuzione, deve fronteggiare mille difficoltà operative e di bilancio, ma all’epoca era una potenza di fuoco: c’era New York e il nuovo punto vendita di Roma, il più grande del pianeta. Inoltre la creatura di Oscar Farinetti stava preparando grosse cose in occasione di Expo 2015 a Milano.
Fico - -Pasta Di Martino
Quale partner migliore? Per rispondere davvero alla domanda si sarebbe dovuto fare un regolare bando europeo, ma si preferì di no. Anche perché l’imprenditore piemontese accettò e l’affare si chiuse su chiamata diretta: Bologna ci metteva lo spazio, sì, ma neppure un euro di soldi pubblici. E poi ci metteva qualche corsia preferenziale burocratica tra permessi, urbanistica, accessibilità. Farinetti e le Coop reperivano i quattrini necessari a partire (una sessantina di milioni) e i contenuti. Questo modello di business va tenuto a mente perché il Fico di oggi è conseguenza di tale impostazione.
Oscar Farinetti e Tiziana Primori
Le cose andarono per il meglio. In soli 4 anni Farinetti e le Coop grazie a capacità manageriali e a dirigenti volitivi (in primis Tiziana Primori) riescono a portare a dama un progetto sconfinato, inclusa l’invenzione del nome-brand: FICO, fabbrica italiana contadina. In qualsiasi altro contesto sarebbero stati necessari vent’anni, oggi invece sebbene manchi ancora un collegamento tramviario con la città, Eataly World è realtà concreta senza neppure la necessità di far forzature come nel 2012 successe a Roma quando Farinetti aprì il suo mega negozio al quartiere Ostiense senza aspettare i permessi del Municipio. E tra poco, di fronte ad Eataly World, il fondo del gruppo Prelios che ha coadiuvato l’investimento, edificherà anche un albergo.
Come funzionano le fabbriche?
I numeri del progetto erano impressionanti e lo restano anche nella realizzazione in via di inaugurazione. 10 ettari, di cui 8 al coperto. 150 aziende coinvolte (quasi tutte già fornitrici di Eataly o di Coop), 700 posti di lavoro più l’indotto, 40 fabbriche che altro non sono che luoghi in cui le aziende non solo vendono e somministrano ma anche producono con impianti veri e propri (Baladin ha realizzato qui un birrificio, Granarolo fa qui la mozzarella e via dicendo), 6 aule didattiche, 6 giostre educative a tema, un centro congressi da 1000 posti, 47 punti di ristoro (alcuni dentro le fabbriche, altri indipendenti, alcuni di street food, alcuni di ristorazione tradizionali, alcuni addirittura di alta ristorazione gastronomica firmato da Enrico Bartolini), il mercato, le botteghe, il bazar, 200 capi di bestiame negli allevamenti circostanti, 2000 cultivar negli appezzamenti dimostrativi.
Fico, in pianta, è una sorta di grande ‘elle’, al centro una pista ciclabile che la percorre tutta (centinaia le bici a tre ruote, brandizzate da Bianchi, mentre la navetta interna è brandizzata da Trenitalia) e ai lati i camminamenti pedonali sui quali si affacciano i chioschi e le fabbriche, all’esterno delle fabbriche le aree esterne, coerenti con le fabbriche stesse.
Per capirci, la fabbrica di Granarolo ha all’esterno i recinti con le vacche, la fabbrica di Urbani Tartufi ha all’esterno vivai per farsi a casa la propria ‘piantagione’ di tartufi (sic) oltre che una tartufaia dimostrativa
La fabbrica dell’olio del Frantoio Roi ha all’esterno una aiuola con alcune varietà di ulivi. E così via. Il sistema delle fabbriche è ancor più interessante non tanto perché permette alle aziende di fare formazione ai clienti (questo aspetto è anzi quello più controverso e ne parleremo dopo), quanto perché è ideale come banco di prova per nuovi prodotti.
“Se dobbiamo lanciare sul mercato qualche nuovo formato di pasta” ci spiega Giuseppe Di Martino che qui ha store e ristorante ma soprattutto un pastificio di tutto rispetto “prima lo facciamo debuttare qui, vediamo come reagisce il pubblico e poi andiamo sulla massa”. Sostanzialmente insomma il sistema delle fabbriche consente alle aziende e ai brand di spostare in un luogo condiviso, assieme a tanti altri colleghi che fanno lo stesso, il tradizionale centro di formazione, dimostrazione & ricerca aziendale dove tradizionalmente le aziende più illuminate e aperte accolgono clienti, turisti, scolaresche, distributori. Oggi lo si può fare in un luogo accentrato, al cospetto di milioni di contatti all’anno. C’è da dire che le fabbriche sono proprio… fabbriche. C’è davvero molto poco di “contadino”, nel senso più retorico del termine, in un grande pastificio come quello di Di Martino, in una significativa centrale del latte come quella di Granarolo o nel laboratorio di pasticceria iper robotizzato come quello di Balocco… Chiamarle “Fabbriche contadine”, perché? Non basta allestire un pollaio e una porcilaia (tutti dimostrativi, mai operativi realmente) per definirsi “contadini”. Ma un progetto così sconfinato ha fisiologicamente elementi fuorvianti, questo è uno e ne vedremo altri in seguito.
Consumo di suolo zero
Per costruire tutto questo non si è mangiato comunque un solo cm quadrato di terreno visto che gli architetti (Thomas Bartoli ha fatto davvero un buon lavoro, per altre considerazioni sull’architettura leggi qui) hanno utilizzato quel che c’era già e che era poco sfruttato. Ma perché proprio Bologna? Risponde Farinetti: “siamo al centro del Mediterraneo, la stazione ferroviaria è fantastica e qui tutti sono vicini, la regione è un simbolo dell’agroalimentare e dell’innovazione e a differenza di Milano Bologna ha una ricettività alberghiera meno congestionata”. E allora si parte: ingresso gratuito, anche parcheggio gratuito per le prime ore e target a 6 milioni di visitatori. Che sembra una sproposito ed è parecchio, ma è grossomodo quel che fa l’outlet di Serravalle Scrivia o quel che totalizza Eataly New York che sì sta a Madison Square ma che è pur 18 volte più piccolo.
Il ruolo di Fico
“Questa non è la mecca del consumismo, è il luogo dove si impara il cibo e dove si fa la lotta agli sprechi”. Durante la conferenza stampa di presentazione (2000 giornalisti per la visita in anteprima) il mantra era un po’ questo qui. Ma il mantra resta questo percorrendo la struttura. Grazie ad uno storytelling efficace e coinvolgente (già visto e rodato ormai da 10 anni in Eataly e gran vanto della casa), Fico ti lascia l’impressione di stare in un luogo dove per te sono state selezionate le migliori realtà del made in Italy, ti convince che una visita approfondita può soddisfare gran parte delle tue necessità di conoscenza sull’agroalimentare del paese con più biodiversità al mondo. Questo convincimento è ancor più efficace sui turisti (specie quelli che mordono e fuggono, ovvero la maggioranza) e ancor di più sui ragazzi. E uno dei target, comprensibilmente, sono proprio i giovani nella fascia tra 8 e 16 anni, nel momento, dice Farinetti, “in cui si comincia a pensare con la propria testa”.
A questo punto del progetto sopraggiungono gli interrogativi più controversi. Perché fin qui abbiamo sostanzialmente descritto un centro commerciale. Un supermercato evoluto. Anzi, di più. Eataly e Coop hanno concepito il progetto di retail shop sul food più innovativo del mondo. Qualcosa che dà reali risposte all’attuale crisi del retail e alla crisi ulteriore che verrà. Una innovazione che tanti copieranno, che parte dall’Italia e rispetto alla quale tutti dovremmo essere orgogliosi. Già oggi è infatti complicato convincere il consumatore a recarsi in un punto vendita, l’appeal dell’e-commerce è soverchiante. Domani, quando grazie alla tecnologia (dei droni ad esempio) quasi tutte le difficoltà logistiche e di delivery saranno superate, sarà plausibile la prospettiva di supermercati e grocery store strutturalmente mezzi vuoti. Si salveranno in pochi, si salveranno solo quei progetti capaci di completare l’esperienza, di saper aggiungere elementi di intrattenimento e di crescita, capaci di unire all’acquisto anche la somministrazione (come Eataly fa da un decennio), il coinvolgimento, l’interazione, la partecipazione (come appunto fa Fico). Sarà solo in questi spazi che le famiglie continueranno ad andare a fare la spesa: i supermarket tradizionali non avranno più grande motivo di esistere. A fronte di questi stravolgimenti di mercato, Fico – Eataly World dà delle risposte straordinarie e replica alle difficoltà di un settore con delle idee e dei modelli che saranno benchmark.
Venchi
Perché puntare così tanto sulla formazione e la didattica?
Ma se hai inventato il centro commerciale più strepitoso del pianeta, perché sforzarti per raccontarlo e “venderlo” come uno spazio di formazione? Perché cercare di malcelare la parte commerciale portando davanti quella turistica, didattica o addirittura formativa? Tra l’altro se a livello commerciale Fico – Eataly World non ha rivali nel suo genere, a livello didattico alcuni dubbi vengono eccome. Il quoziente di ‘credibilità didattica’ c’è, ma è francamente inferiore, tanto per fare un raffronto a cui Fico si richiama con evidenza, per fino al lunapark di Expo 2015. Salvo alcune linee seguite direttamente dalla Fondazione Fico (dove sono presenti anche le 4 università partner), la didattica è tutta demandata alle aziende. E così il consumatore meno avveduto rischia di essere centrato a pieno dal formidabile storytelling eatalyano e di andarsene via convinto al cento per cento che il miglior olio del paese sia quello di Roi, che il miglior panettone italiano sia quello Balocco e che il miglior pollo sia quello di Amadori. Peccato che tutto questo sia falso. Attenzione: non si tratta di aziende scadenti, tutt’altro. Siamo di fronte a onesti operatori del made in Italy, società di tutto rispetto. Ma sono lì, a Fico, non perché siano state selezionate, come si potrebbe pensare, da un ente certificatore terzo, bensì perché sono storiche partner commerciali di Farinetti e di Coop o perché hanno accettato di essere presenti in Fico con le condizioni che Fico ha offerto (zero affitto, ma 20% sugli incassi da vendita di prodotto e 30% sugli incassi da ristorazione: un business model che necessita di spalle larghe e che non lascia troppo spazio ai veri artigiani). A dispetto della insistita narrazione, salvo alcune eccezioni, qui non ci sono le eccellenze assolute del made in Italy come si sarebbe portati a credere: proprio no! Solo (e non è poco, beninteso) buone aziende.
Ciò nonostante il coinvolgimento emotivo della narrazione è tale che una buona percentuale dei destinatari della filiera didattica di Fico andranno via da Bologna forti della convinzione che in Italia il miglior cioccolato è Venchi, la miglior passata Mutti e Rossopomodoro la miglior pizza napoletana in assoluto. Questo accade – o può accadere – quando si eccede nel mescolare commercio e didattica. In alcuni casi a mitigare questa anomalia ci sono i consorzi, che dovrebbero essere il vero punto di mediazione, quando si parla di educazione alimentare, tra produzione e consumo. E però a Eataly i consorzi non sono molti: mele, parmigiano, grana, prosciutto e mortadella. E per fortuna che il disciplinare del Parmigiano Reggiano, per pochi chilometri, non consente di produrre in loco altrimenti anche nella omonima fabbrica si sarebbe ceduto alla retorica del “fatto al momento” che pervade altre fabbriche e che può essere forse interessante a fini dimostrativi, non certo educativi.
E poi che tra i tanti aspetti innovativi di Fico, quello della formazione lo è forse meno di tutti. In fondo ogni buon commerciante fa, indirettamente, formazione. Gli conviene, fidelizza, coinvolge e appassiona i suoi clienti. Ancor più gli esercizi di qualità. Pensiamo al banchista della nostra gastronomia di fiducia, al nostro enotecario, tutti ci hanno insegnato tantissimo. E lo stesso vale per chi produce direttamente: ogni azienda vinicola ad esempio si è ampliamente attrezzata in questo senso. Ogni bravo verduraio al mercato ci spiega che l’Italia ha centinaia di cultivar di mele spesso troppo trascurate, da Fico questo semplice concetto ha bisogno per essere veicolato della sponsorship cubitale di Melinda sul grande portale d’ingresso.
Il confronto con il progetto di Lione
La pervasività dei brand che è misurata, ben tarata e giustamente distribuita se guardiamo Fico come un centro commerciale, diviene forzata se guardiamo Fico come il luogo di conoscenza e apprendimento dove andranno in gita scolastica i nostri figli. Starà agli addetti della Fondazione Fico governare queste anomalie e l’eccessiva contiguità tra merceologia generale e brand, tra business e educazione che ha fatto storcere il naso perfino a noi che siamo soliti considerare business e educazione due facce della stessa medaglia. Ma queste anomalie hanno un’origine e l’abbiamo svelata all’inizio dell’articolo: l’assenza di finanziamenti pubblici.
I temi dell’educazione alimentare sono così strategici che appare increscioso che lo stato italiano lasci che siano dei privati, da soli, ad occuparsene. Senza sostenerli, senza entrare nella partita, senza investire massicciamente. La Città internazionale dell’alimentazione, che aprirà a Lione tra 2 anni e che dichiara fin da oggi di essere l’unica alternativa europea a Eataly, si sta realizzando con 200 e passa milioni di investimenti pubblici. Tanti soldi? No: nulla! Se davvero la sfida è quella di insegnare alla generazione che avrà 20 anni nel 2030 come si mangia, come si evitano patologie, come si tutela e si rispetta davvero la terra, i suoi tempi, le sue caratteristiche, la sua diversità, allora 200 milioni sono briciole perché la prospettiva è di risparmiare alcuni miliardi (miliardi, all’anno!) sulle spese del servizio sanitario nazionale che in Francia, così come in Italia, rappresenta la percentuale monster del 7% sul Pil.
E allora se in un progetto davvero straordinario come Eataly World ci sono nei, incompletezze e passaggi poco trasparenti le colpe sono da andare a ricercare non certo nella rapacità degli imprenditori (ce ne fossero di questo lignaggio, al di là delle poco costruttive critiche che sovente Farinetti è costretto a subire), ma nella solita italica assenza di lungimiranza da parte delle primarie istituzioni governative: il Ministero dell’Educazione, certo, quello dell’Agricoltura, chiaro, ma ancor di più del Ministero della Sanità. Ad oggi l’unica presenza, assai timida, è quella del Ministero dell’Ambiente. In assenza di finanziamenti pubblici, gli sviluppatori privati si sono dovuti affidare in toto alle aziende: delle due, l’una. Si tratta di una questione cruciale, lo hanno capito a Bologna e la stanno cavalcando in ogni modo, non resta da attendere che lo comprendano pure a Roma. Certo è che se non c’è arrivato questo governo, appare velleitario nutrire speranze sul prossimo.
Fico è comunque una ficata
Tutto ciò premesso, Fico è e resta una gran ficata. Ma non per quello che hanno cercato di inculcarvi con uno storytelling fuorviante in questi anni di cantiere. Non è interessante tanto perché è “contadino” (la parte campestre risulta patetica rispetto a qualsivoglia fattoria didattica), quanto perché invece dà la possibilità di osservare da vicino processi autenticamente industriali e applicazioni nel settore alimentare della grande meccanica di precisione italiana. Non è interessante tanto perché ci fa imparare delle cose (anzi abbiamo qualche riserva che ce le insegni in maniera davvero indipendente), quanto perché è la più avanzata e geniale risposta alla crisi del commercio al dettaglio. Non è interessante perché seleziona e sdogana piccole eccellenze come una sorta di preteso Salone del Gusto permanente, ma perché coinvolge, mette a sistema e lancia una sfida a industrie di qualità già strutturate contribuendo al loro salto dimensionale (e in questo senso è un modello replicabile, magari da altre parti d’Italia). Non è interessante tanto per la trita retorica su natura&terra, ma semmai perché offre una robusta alternativa indubbiamente meno alienante ma non meno appagante alle famiglie che per non pensare troppo a cosa fare passano regolarmente i fine settimana negli shopping mall tra cibo spazzatura, vestiti che non possono permettersi e insegne di cattivo gusto.
Fin qui le nostre idee. Le vostre non potrete che costruirvele andandoci. Il consiglio è di farlo senza dubbio.
a cura di Massimiliano Tonelli