Ogm, orti e foraging
Si toglie qualche sassolino dalla scarpa, Davide Scabin, e lo fa in apertura del congresso Identità Golose. Che affronta lanciando provocazioni, fedele a un personaggio che a volte rischia di ritorcerglisi contro. Come quando contesta il ritratto emerso da una recente intervista in cui pare preferire gli Ogm al biologico (“almeno sai esattamente cosa c'è dentro”), posizione impopolare che, con le argomentazioni del caso, sostiene anche al Mi.Co. E chissà dove è la strumentalizzazione lamentata. È un attimo e la polemica si rivolge contro i giornalisti ormai “incapaci di fare i giornalisti e di fare critica, di capire e spiegare il bello”, ridotti a cercare storie da raccontare, interessati più ai tatuaggi che ai piatti.
Con un'apertura improvvisa tesse le lodi delle grandi aziende, prima tra tutte il gigante del caffè in capsula (“un prodotto che viene controllato tantissimo e viene pagato al produttore il 30% in più del mercato”).Del resto già aveva ricordato la necessità, per un certo tipo di cucina, di dialogare con le grandi aziende “solo grazie a loro che investono sugli chef e su congressi come questi, si può avere l'alta cucina. Le piccole aziende non possono dare fondi sufficienti”. Con un improvviso colpo di coda, però, richiama a un approccio più etico dato che l'uomo, dal suo pur recente arrivo sulla terra, ha creato enormi e drammatiche trasformazioni, “l'antropocene non è che gli ultimi 3 minuti della storia del mondo”. Bisogna essere sostenibili e green, insomma. Mangiare più legumi (con conseguenti reazioni fisiologiche), perché il costo energetico degli allevamenti sull'ambiente è enorme, come ricorda in un velocissimo passaggio. Ma attenzione, perché anche questo sembra essere una tendenza: “se oggi non sei etico non sei nessuno”. Di più: “se non hai il tuo orto sei uno sfigato”. Dice. Ironizzando su una delle ossessioni del momento e sull'inquinamento da polveri sottili dei tanti urban garden. Lui che, ricorda, di mode e manie ne ha viste passare un po', senza mai farsene toccare, come quando nel 2007 esplodeva la cucina molecolare “schiume e sfere ovunque e io facevo il tataki di melanzana, poi dopo 4 anni sono tornato e le persone erano lì, a fare il tataki”. Oggi è la volta di bucce d patate e fermentazioni. Basta inseguire tendenze: “la libertà è riuscire a pensare il futuro” dice. E intanto inforca gli occhialini 3D.
Ardito irridere gli orti quando poco dopo c'è Enrico Crippa. Arriva e infila una sequenza impressionante di piatti che rubano i colori alla natura (“è l'inverno la stagione più colorata”): la sua libertà è anche quella di sentirsi artisti, oltre che cuochi. Nel senso in cui, un tempo, artigiani e artisti erano parenti strettissimi. La libertà è “fare quello che vuoi nel rispetto del territorio, dei clienti, dei colleghi”. E se non fosse Crippa penseremmo a una frecciatina. Costruisce la sua tavolozza a partire dal verde del Ficoide Glacialis, una verdura mucillaginosa e grassa con cui ci introduce nel suo orto (“è importante farlo in modo serio: ho rinunciato a 4 persone in cucina per curarlo come si deve”), foglia dopo foglia, rivelando nomi misteriosi e sapori inattesi. Entriamo nel candido paesaggio invernale di cui ha esperienza quotidiana con “La serra” che evoca con rapa, cavolo rapa, foglie, crema di latte, patate e fassona e passa al bellissimo cocktail di gamberi, una sinfonia di giallo e arancio in cui trionfa il radicchio di Treviso, “bordeaux, un colore serio”. Ancora arancio nel merluzzo al sale in salsa di zucca, un piatto semplice e della memoria “Il migliore complimento che possano farti è che un piatto evoca memorie dell'infanzia”, passa per il riso rosa, con barbabietola, burro di fiori, fiori rosa, che richiama dolcezza e femminilità,arriva poi il piatto nero, drammatico e intenso; giocato su aglio, porro, cipolle dove la carne è l'elemento di contorno, che annuncia un amaro di materie bruciate poi disatteso, arriva poi al dolce: una banana al curry in cui ritornano tutti gli elementi classici, pollo incluso. La crostata di frutta è un'istallazione di cialde croccanti, o meglio “croste”, su ispirazione di Michel Bras. Un percorso a capofitto nella sua cucina che mescola il nostro linguaggio con spunti francesi, nelle salse e nelle basi, e orientali nei contrappunti acidi, nelle fermentazioni e nelle marinature.
La sua è una cucina di velocità, in cui l'orto comanda con i suoi capricci e i cambi d'umore, esattamente al lato opposto di un andamento lento, di cui spesso si parla quando si pensa al ritmo della natura: la natura compie virate improvvise. Obbligando, per dirla con Valeria Margherita Mosca, maestra di foraging, etnobotanica, cucina e miscelazione, a gestire delle microstagioni. Brevi intervalli di tempo che obbligano a rimodulare continuamente cucina e lavorazioni, e impongono anche il loro superamento, grazie ai molti metodi di conservazione che lei, in una lezione tesa e fitta di nozioni, illustra. Si tratti di salature, fermentazioni, essiccazioni, un'antologia di tecniche moderne o rubate alle molte tradizioni che di concerto regalano una seconda vita agli alimenti. Non solo prodotti freschi dunque. E anche questa è un'apertura a nuovi sapori, consistenze che moltiplicano all'infinito il ventaglio di sapori. “Ci sono 15mila vegetali selvatici potenzialmente commestibili”, che possono svelare un universo inedito di sapori. Ma le scienze alimurgiche, quelle che studiano le possibilità di cibarsi di cibo selvatico, richiedono conoscenza approfondita di un territorio e dei suoi equilibri perché il foraging deve essere, soprattutto, un modo per riconnettersi con l'ambiente. Non più sussistenza come accadeva fino a 100 anni fa.
Dalla ricerca in cucina alla ricerca sul territorio. Ode al piacere
Chiama in ballo la gastrosofia Mauro Defendente Febbrari, endocrinologo e libero pensatore arrivato a Milano al fianco di Massimiliano Alajmo. Entrambi sono accolti da una platea che li applaude convinta, memore delle passate edizioni, quando la ditta Alajmo è sempre stata in grado di fare la differenza. Quest’anno a sostenere un percorso di ricerca incessante e modulata su alte frequenze c’è anche il professore che nel pensiero di Massimiliano ha saputo rintracciare quell’equilibrio tra salute e piacere a cui l’uomo che si relaziona con il cibo non può (non deve) rinunciare. Non a caso è in quell’adagio di veronelliana memoria – Vietato vietare – che l’intervento portato sul palco dai due trova il coraggio di rivendicare la forza della libertà, perché solo un approccio che tenga conto della bellezza e dell’eleganza del piacere può fornire stimoli vitali all’intestino, che il dottore non esita a definire “il nostro primo cervello”, quello in grado di percepire in modo autonomo i sapori. E se questo è vero per chi della creatività ha fatto il suo mantra in cucina, è altrettanto giusto che anche il cliente possa godere a pieno delle suggestioni che il cuoco gli fornisce, certo che un buon pasto non gli arrecherà danno. Chi è che rende possibile tutto questo? Lo chef, chiaramente, quello che sa farsi guidare da “radici e ali, in cucina come nella vita”. Nella quotidianità delle Calandre questo significa ascoltare la materia e indagarla attraverso tecniche sempre diverse, che esaltino il gusto e le caratteristiche di ogni ingrediente. Facile a dirsi, più complicato a farsi, il lavoro di ricerca impiega molte delle energie di un’equipe ora tutta concentrata a studiare effetti e potenzialità della cottura a vapore e dei forni a pressione. Ma l’apoteosi di questa filosofia gastronomica arriva quando gli schermi proiettano la storia della Almond Mozzarella, “un concetto masticabile” come la definisce Alajmo: albume, zucchero e miele (la base del celebre mandorlato veneto) che si trasformano in una materia plasmabile come il vetro, lavorata a caldo per ottenere quella finta mozzarella ripiena di crema alle mandorle completata con origano, basilico e un filo d’olio, perché l’illusione sia parte del gioco.
E di ricerca si nutre anche la creatività di Ricard Camarena, in arrivo da Valencia per raccontare il brodo alla sua maniera. Ai brodi lo chef spagnolo ha recentemente dedicato un libro: sul palco di Identità porta diverse variazioni sul tema, che del brodo vogliono fare un veicolo di gusto in grado di prescindere da elementi estranei, dall’uovo utilizzato per chiarificare i consommé all’acqua. Quindi bando ai liquidi aggiunti, il risultato finale è frutto di un utilizzo mirato dell’albumina contenuta nelle proteine. Senza dimenticare di riunire nel piatto consistenze diverse, perché la masticazione è un complemento imprescindibile, un atto di cui si è persa consapevolezza, capace di trasmettere un gran numero di sfumature.
E se invece la ricerca diventa strumento per entrare in sinergia con il territorio, il caso di Carlos Garcia diventa emblematico. Lo chef venezuelano guida la riscossa della cucina d’autore in un Paese finora poco toccato dalla riabilitazione della gastronomia sudamericana cui abbiamo assistito negli ultimi anni; e comincia dalla riaffermazione delle comunità locali, facendosi portavoce di tutti quei piccoli produttori che cercano di lavorare sulla qualità pur in un mercato nazionale che (ancora) li penalizza. Per questo lo chef di Alto, a Caracas, ha fondato una onlus, e a Milano il suo attaccamento alla terra lo esprime con un piatto che celebra la speranza in un futuro migliore e sostenibile, con piccole fave verdi che punteggiano il suo Lomo negro, come il colore del petrolio di cui il Venezuela è grande produttore.
La capacità di ascoltare. Il lusso del dettaglio
È pomeriggio inoltrato quando sul palco sale una coppia inedita di madrelingua spagnola. I due, uno basco l’altro uruguaiano, per perseguire il proprio obiettivo hanno scelto strade molto diverse, ma oggi li accomuna quell’approccio al servizio che vuole fare del cliente l’asse portante dell’alta ristorazione. Josean Alija, alla guida di quello splendido esempio di ristorante nel museo che è il Nerua di Bilbao, porta con sé Stefania e Giacomo, italianissimi compagni di un avventura che non si limita alla creazione di un piatto, ma a supporto del pensiero gastronomico costruisce una minuziosa coreografia di sala, che si concretizza, per esempio, nella scelta di presentare un tavolo vuoto da “riempire” secondo desiderio del commensale. Tutto risponde a un linguaggio fatto di ritmi, temperatura di servizio, ingredienti, estetica (del piatto e della sala), perché il lusso è la cura del dettaglio: “Offriamo ai clienti ciò di cui hanno bisogno” spiega Stefania “secondo un codice fondato sulla conoscenza della cucina, del prodotto, del commensale e sulla perfetta organizzazione del lavoro”. Ma anche Matias Perdomo, a Milano, ha intrapreso una strada che lo porterà presto ad affinare quello che potremmo definire un database di gusti e preferenze dei clienti abituali. Al Contraste di via Giuseppe Meda, infatti, il gioco va oltre e il cameriere diventa psicologo per recepire i desideri dell’ospite e aiutarlo ad elaborare un menu su misura, “allo specchio”. Coinvolgendo anche la cucina, quella di Matias, che dal canto suo ha schedato i piatti in menu seguendo un indice di tradizione e innovazione applicato a 4 parametri: forma, gusto, consistenza, temperatura. A ogni piatto è associato un valore: con il Donut alla bolognese, per esempio, siamo a -16 rispetto alla tradizione (perché il gusto è quello di una lasagna, ma la forma è piuttosto straniante). Semplice divertissement? Niente affatto. Lo chef ha scelto di attribuire lo stesso valore al racconto di se stesso e all’ascolto del cliente, e questo gli permette di trasformare i piatti in emozioni.
Il valore della libertà
“È la libertà di essere cuoco”, semplicemente un cuoco, per Enrico Crippa, che traduce questa sua affermazione in una sequenza lunghissima, e rapidissima, di piatti. E racconta di un lavoro che prende tanto, ma dà anche tanto: “Ci sono delle emozioni che solo un cuoco può avere mentre fa il suo piatto, il commensale non può percepirle”. E arriva alla stessa conclusione, ma con un altro percorso, Antonia Klugmann, libera di essere, semplicemente, un cuoca e non una donna cuoca. Lo afferma con le parole di uno dei libri chiave dell'affrancamento della condizione femminile e della conquista delle attività artistiche e creative, quelle di Virginia Wolf e di Una stanza tutta per sé. Antonia ne ha definito i contorni nello spazio quieto di Vencò. La creatività non è improvvisazione ma lavoro, idea e legame con un'intera comunità di persone e condizioni all'interno delle quali si pone il creativo, questa rete fa sì che possa produrre la sua opera. Ma la comunità femminile non ha alle spalle questa tradizione. Nella ragnatela della creatività la donna è ancora impegnata ad autodeterminarsi, a definire la propria identità.“La libertà oggi è non dover dimostrare la propria particolarità, è lavorare in quanto cuoche e non in quanto donne”.
Identità Golose 2016 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata - gate 14 | www.identitagolose.it/
a cura di Antonella De Santis e Livia Montagnoli
foto di Alberto Blasetti
Per leggere Identità Golose 2016 e la Forza della libertà. Il programma del congresso gastronomico clicca qui