A un certo punto Roberto Okabe tira fuori una pala da pizzaiolo, ci mette su dei nigiri (di tonno e di salmone) e ce li serve, invitandoci a prenderli con le mani. Un gesto che dice tutto dello spirito con cui lo chef nippo-brasiliano (per parte di padre e per parte di madre, rispettivamente) intende condurre il suo nuovo ristorante, il View, aperto con il restaurant manager Simone Conca nei locali al numero 2 di via San Gerolamo Emiliani in cui ha iniziato la sua avventura milanese aprendo nel 2003 il Finger’s. Da cui poi sarebbe germogliato il Finger’s Garden di via Keplero e poi due succursali a Roma e a Porto Cervo.
Poi il divorzio, in seguito a qualche differenza di vedute tra soci: Okabe a 58 anni ha lasciato il marchio che lo ha reso famoso a Milano e ha aperto questo nuovo ambizioso ristorante, che ha tutta l’aria del posto che per i prossimi mesi i milanesi affolleranno e fotograferanno, secondo la logica del love bombing meneghino che consiste in una fase di violento innamoramento per le insegne nuove e comme-il-faut, a cui a volte segue un matrimonio solido e altre volte una storiaccia di amore tossico. Considerando che Okabe è un personaggio molto conosciuto, con una sua fedele fandome, e conosce molto bene le dinamiche cittadine, è molto più probabile che l’opzione giusta sia la prima.
Come si mangia da View a Milano
Locale sopra le righe
Ma torniamo ai nigiri (buonissimi, va detto) serviti sulla pala della pizza, che lui distribuisce in questo modo plateale ai clienti abbarbicati su sgabelli non proprio comodi del tavolo a ferro di cavallo che lui chiama Chef’s Table ma io definirei piuttosto un omakase. “So che ci sarà qualcuno che storcerà il naso per questo gesto, mi diranno: che c’entra il sushi con la pizza?”, mi dice con l'aria del discolo che l'ha fatta grossa. Ma questo è View, un locale sopra le righe, che conferma l'eclatante ritorno, sulla scena milanese, di una certa spettacolarizzazione dell’atto del servire e del mangiare; un visibile cambio di tendenza dopo anni di asfittiche e silenziose cerimonie gourmet tutte tecnica e pensiero, e di décor stilizzati e disadorni. Non so se durerà. Ma so che i clienti che vedo attorno a me hanno l’aria di quelli che non aspettavano altro che divertirsi un po’. E anche io, dopo un po' di diffidenza iniziale, me la spasso.
Un grande bancone per dodici
Qui si gioca un altro campionato, decisamente. Il locale è di grande impatto visivo, vuole piacere, stupire, dare il senso di un luogo dove è un privilegio essere, inutile dire che è instagrammabilissimo (avviso agli influencer). I materiali sono chiaramente di pregio, le luci scudisciano il buio, l'atmosfera è un po' da night, una consolle da dj fa immaginare serate da decibel pesanti. C’è una prima sala con alcuni tavoli isolati, poi il grande bancone per dodici clienti che dialoga con la cucina, da qualche parte dovrebbe esserci anche un privé che però io non ho visitato. Insomma, una roba da investimento importante, perché alla fine in certe cose la differenza la fanno i soldi, e averne nella ristorazione non è un peccato.
Una carta opulenta
Okabe ha l’aria felice, mi fa intuire che nel precedente indirizzo non poteva più esprimersi al meglio, che qualche ristrettezza di visione lo zavorrava. La sua cucina, in questo locale tra Porta Romana e piazzale Lodi, appare simile a quella che praticava in via Keplero, ma con una maggiore opulenza, una più spinta muscolarità, che si ritrova in piatti colorati e ricchi, con qualche tocco sovrabbondante che alla fine non disturba. Hic sunt leones. Io scelgo il menu degustazione, che al momento è organizzato in una raffica di porzioni mignon secondo un canovaccio di massima che può variare di sera in sera. Dapprima una Chips di riso con tartare di tonno sumiso, da mangiare con le mani facendo attenzione a che il fragile supporto non si spezzi, poi un Salmone scottato con “mojito” di daikon grattugiato, ananas e menta, una frittellina di zucchina, carota, cipolla e gambero in pastella che si chiama Kakifry ma è assai italiana nel suo concetto.
Ancora: una crocchetta di suino nero con fiori di loto e oliva taggiasca, menta e cocco (nome in codice: Karokke Renkon), una sfilata di quattro uramaki freschi e piacevoli (prediligo quello con Spicy tuna e lo Speciale con tempura di gamberi, avocado, maionese, salsone fiammato con salsa di sesamo). Poi il C’era una volta il finger food, una capasanta con panna acida colorata con fiocchi di caviale, tartare di salmone, scampo, avocado e riso. Il mio piatto preferito della serata è certamente il Takofumi, un polpo affumicato con crema di peperoni e patata dolce e peperoncino giapponese. Accanto, in un piattino, dei Ravioli di granchio ripieni asparagi e ponzu con polvere di bacon. Poi è il momento dei già citati Nigiri alla pala e di un assortimento di sashimi serviti in dei cucchiai da portare direttamente alla bocca. Si chiude con un mochi al mango del quale lo stesso Okabe è poco convinto (“non è granché, dobbiamo lavorarci”). Carta dei vini mainstream ma corretta, buoni ma con una preferenza per i toni dolci i cocktail del palestratissimo e tenebroso Alessandro Lisco.