Fateci caso, se entrate in una delle molte enoteche naturali che sono nate negli ultimi mesi tra Roma e Milano. Date un’occhiata agli scaffali. Etichette bellissime, con grafiche moderne, innovative, spesso in stile fumettistico. Nomi fantasiosi a volontà, tipo Scapigliato, Akkanna, Sbarbatello. Tanti vitigni poco conosciuti al grande pubblico, Durello, Aleatico, Chenin Blanc.
Poche Doc e Docg, che nel mondo naturale sono viste come un’inutile gabbia, controllata dai secondini delle commissioni di degustazione.
Cosa manca? I grandi vini.
Il Barolo, il Barbaresco, l’Amarone.
Che fine hanno fatto?
Costano troppo, e questo si sa. I nuovi consumatori, poi, amano vini poco alcolici, poco strutturati, poco tannici, di facile beva. E a peggiorare la situazione, i Barolo naturali si contano sulle dita delle mani. A Vinnatur, la fiera di Cerea, Marta Rinaldi, figlia del mitico Citrico (Beppe), ci spiega: “Saranno al massimo una decina quelli che lavorano in modo naturale come noi”. Perché? Perché la tradizione pesa. E le Langhe costano. I giovani produttori naturali certo non possono cominciare da qui. E la speculazione non manca. Ne son passati di milioni di euro da quando Carlìn Petrini, nel 1981, lanciava lo slogan: «Il barolo è democratico, o quanto meno può diventarlo!». Non c’è riuscito. Però è diventato ancora più buono, anche se molti giovani rischiano di non saperlo. Preferiscono il Pampanuto e il Pignoletto (ottimi, per carità) e non sanno cosa si perdono.