Intervista a Odette Fada. La chef che ha conquistato gli americani

19 Mag 2014, 15:30 | a cura di
25 anni nelle cucine dei migliori ristoranti in America, tra cui il celebre San Domenico, e poi l'esigenza di fermarsi. E dedicarsi alla ristorazione sotto un'altra veste. Oggi è consulente di piccoli ristoranti e grandi marchi. Ovviamente di impronta italiana. Intervista a Odette Fada.

Dopo 25 anni trascorsi nelle cucine dei ristoranti e la consacrazione da parte di Wine Spectator che l’ha scelta fra i migliori chef italiani negli Stati Uniti, Odette Fada, decide che aveva bisogno di fermarsi. L’America entra nel suo destino, un po’ per caso un po’ per gioco: a Los Angeles arriva nel 1988, in vacanza. È allora che decide di lasciarsi alle spalle il lavoro da chef al ristorante di Brescia, il Castello Malvezzi e di tentare l’avventura americana in un ristorante di West Hollywood, dove incontra lo chef umbro Gianfranco Vissani, che chiede al proprietario del ristorante di assumerla.
A Los Angeles, Odette rimane sei anni lavorando nel ristorante di proprietà di Mauro Vincenti, Pazzia che poi cambiò nome in Rex. In quegli anni, Odette e la sua squadra preparano banchetti per le cerimonie degli Oscar, Grammy Award e party hollywoodiani. Poi, nel 1996, il passaggio nella East Coast. In quegli anni, Tony May, celebre ristoratore che ha contribuito fortemente a portare in auge la cucina italiana nella Grande Mela, cercava uno chef nel prestigioso ristorante San Domenico. Odette accetta e vola a New York. Dieci anni di lavoro intenso, di fatica ma anche di grandi soddisfazioni.

Oggi Odette non ha di certo chiuso la toque nell’armadio e appeso al chiudo il suo grembiule. Grazie alla sua esperienza, sta sperimentando un nuovo percorso come consulente per piccoli ristoratori ma anche per grandi marchi come Giovanni Rana e Accademia Barilla, che hanno aperto locali a New York e si sono rivolti a lei per scoprire quali sono i gusti che piacciono agli americani. Non solo menù, però, perché lei si occupa anche di progettare le cucine dei ristoranti insieme agli architetti, di presentare e introdurre nuovi prodotti italiani nel mercato.
Dalla cucina non riesce a stare lontana. Spesso aiuta il marito Philippe Bertineau, executive chef nel ristorante Benoit di Alain Ducasse a Manhattan, a preparare ravioli e portare un tocco di italianità nel bistrot francese.

Odette, secondo l’ultima classifica dei 50 migliori ristoranti al mondo pubblicata dalla rivista britannica “Restaurant”, soltanto due ristoranti sono in mano a donne. Resta questo un lavoro difficile per l’altra metà del cielo?
Sicuramente sì. Le donne devono lavorare, oltre alle 12 ore, ben altre otto ore o più a casa. La donna, per forza di cose, deve fare più sacrifici. Questo è già un lavoro faticoso ma alle donne richiede più sacrifici soprattutto se hanno una famiglia e dei figli. Gli uomini hanno sempre avuto una vita più facile.

Eppure è stata una donna, Julia Child, a dare vita alla figura dello chef televisivo prima dell’avvento dei vari cooking show. Sempre in America, oggi Alice Waters, celebre chef di Chez Panisse e attivista e leader di Slow Food America, è considerata da Time una delle 100 persone più influenti anche per le sue battaglie a favore dell’educazione alimentare.
Rispetto a prima, ora ci sono più donne chef proprio perché la condizione della donna è cambiata negli ultimi trent’anni. La prima donna chef di cui ho avuto il piacere di assaggiare la cucina è stata Alice Waters in California mi pare nel 1999. La ammiro molto e credo sia stata la prima chef che veramente si sia data da fare per avere una cucina stagionale e regionale in America. Mi sono trovata benissimo anche con Marta Pulini quando era a New York al ristorante Le Madri.

Dopo tanti anni da chef hai deciso di abbracciare un progetto nuovo. Come cambia la percezione del mondo del food ora che sei consulente?
In cucina siamo abituati a vedere un prodotto in maniera veloce. Lavorando per le grandi industrie si deve pensare a una visione più a lungo termine. La cucina non è arte, si è liberi fino a un certo punto: bisogna sempre accontentare i clienti.

Chi sono i tuoi clienti e di cosa ti occupi nello specifico?
Sono ristoratori italiani e americani che vogliono aprire una nuovo ristorante in America ma anche le grandi aziende che vogliono promuovere un prodotto italiano sul mercato statunitense. La mia consulenza varia dal menu all’abbinamento dei vini o birre con i cibi, dalla progettazione delle cucine e degli spazi alle lezioni di cucina e di educazione al mangiar bene e sano. È un ruolo nuovo che mi piace perché sono italiana ma conosco i gusti e il mercato americano.

Come sta cambiando il gusto e la consapevolezza degli americani, sia di quelli che vivono nella East Coast che nella West Coast?
Gli americani amano in generale provare nuove cucine e sperimentare, però, se vogliono mangiare italiano preferiscono sempre i gusti autentici e tradizionali: in questo senso in Italia i nuovi chef stanno sperimentando di più. In California sono sempre stati più consapevoli ed esigenti rispetto al cibo e al mangiar bene, sono più salutisti con una tendenza al biologico e al cibo vegetariano. Il newyorchese ama il cibo grasso, la carne. Per questo la steak house trova la sua massima consacrazione a NY e non di certo nella Città degli Angeli. Una questione culturale ma anche legata al clima.

L’ultima tendenza a New York in tema di cibo?
Sta andando tantissimo usare in cucina certe parti di animali mai usate prima e che prima appartenevano più ad una cucina povera: cresta di gallo, interiora, spalla di vitello, stinco di agnello, testicoli di vitello. Il coniglio ha successo ma appartiene ad un mercato di nicchia perché è piccolo e difficile da cucinare mentre alcuni tipi di carne come lo struzzo non hanno mai riscontrato successo negli Stati Uniti. Poi si parla e si insiste anche sulla cucina a km zero con ingredienti stagionali. Cosa difficilissima a New York.

Cucina a km zero e cucina regionale. Come si possono soddisfare nella Grande Mela entrambi gli elementi?
In Italia è stato sempre più facile realizzare una cucina regionale e praticare il km zero. Devo dire però che a Brescia solo trenta anni fa non si trovava facilmente la mozzarella di bufala e anche la frutta o la verdura fuori stagione era sempre così difficile trovarla. Quando nel 2009 sono stata a Roma, alla scuola del Gambero Rosso, per fare le prove del menu del nuovo SD26 con il mio sous chef non siamo riusciti a trovare la zucca perché era luglio. Forse non conoscevamo i posti giusti, ma nei supermercati e al mercato di Campo De Fiori non c'e` stato verso di trovarla e me la sono portata da Brescia. A New York si ha la sensazione di poter trovare tutto ma non sempre si trovano prodotti tipici di alcune parti di Italia. Ci sono alcuni ristoranti specializzati in una cucina regionale ma onestamente, se andiamo in un ristorante siciliano a New York, dobbiamo essere consapevoli che il pesce spada non è come quello pescato in Sicilia. La stessa cosa per la mozzarella di Brooklyn o i salumi americani.

Oltre all’Italia, quale cucina va molto di moda e sta emergendo in America, a New York?
La cucina spagnola anche se due o tre anni fa era più di moda, quella peruviana ma anche la cucina francese sta ritornando ad essere popolare con l’apertura di molti bistrot che propongono un cibo più facile. L’Italia rimane in testa perché riusciamo ad accontentare i gusti di tutti.

Odette cosa ama mangiare e cucinare?
Amo il cibo, tutto. Sono curiosa delle cucine di altri popoli. Mangio giapponese, turco, francese. L’unica cosa è che non potrei mangiare ogni giorno un certo tipo di cucina, come quella thailandese, a differenza della cucina italiana.

Dall’America sono arrivati Masterchef e altri reality che dividono il pubblico ma anche gli chef. Cosa ne pensi?
È una mania. All’inizio i reality hanno dato un contributo positivo perché hanno permesso al pubblico di avere maggiore consapevolezza del cibo e di rivedere e rivalutare la figura dello chef. Il lato negativo è che i ragazzi che scelgono di frequentare una scuola di cucina hanno magari in mente di andare subito dopo in tv da Hell’s Kitchen. Questo è spettacolo. La realtà è un’altra. Oggi credo che gli chef stiano tornando nelle cucine.

Un marito francese e chef. Chi comanda a tavola?
Con Philippe scherziamo sempre su chi cucina meglio su chi ha i vini o i formaggi migliori ma non c'è conflittualità, anzi spesso ci diamo dei consigli tecnici o idee sugli abbinamenti di sapori. A casa non cuciniamo spesso: siamo sempre in cucina, quando siamo liberi, vogliamo andare a provare nuovi ristoranti. Se ci capita di cucinare a casa è perché abbiamo voglia di qualcosa di specifico o perché` abbiamo degli ospiti. Detto questo però devo ammettere che generalmente cucino io che ho più tempo di mio marito e anche perché a lui piace tantissimo qualsiasi piatto di pasta e come faccio il risotto. Ultimamente sto cucinando anche cose semplici per la colazione (crostate, ciambelle, croissants) soprattutto se Philippe deve stare a casa mentre io sono in trasferta.

a cura di Liliana Rosano

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