Valerio Massimo Visintin, gli osti scomparsi, il circo mediatico, gli chef e altre storie

11 Mag 2016, 15:13 | a cura di Antonella De Santis

Lo scranno è quello privilegiato del Corriere della Sera, tra le cui fila è in forze come giornalista e critico gastronomico. Un ruolo privilegiato da cui guarda e commenta con arguzia il mondo della ristorazione con le mode e le manie.

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Ma che fine ha fatto l’oste? Era qui un momento fa”. Così Valerio Massimo Visintin (che alcuni chiamano il vate dei Navigli, con ammirazione o spregio in ugual misura) nelle prime pagine della sua ultima fatica editoriale, il nuovo Cuochi sull'orlo di una crisi di nervi. Che è la raccolta di alcuni degli articoli pubblicati tra le pieghe - cartacee e no - del Corriere della Sera, Grande Cucina e Vitae. L'oste ha ceduto il posto allo chef imprenditore, e da questo cambio di guardia sembrano originare tutti (o quasi) i guai della nostra ristorazione. Almeno secondo l'opinione del più noto critico misterioso d'Italia (ma sarà forse l'unico?). A volto celato si muove nel panorama meneghino per ristorati, pizzerie e – preferibilmente – trattorie, come recita il sottotitolo: Viaggio in incognito fra tic e manie della ristorazione italiana.

 

Cuochi sull'orlo di una crisi di nervi

L'origine di tutti i guai

Saltato il patto cliente-ristorante, che si reggeva sulla mediazione calorosa e saggia dell'oste, il “nume tutelare, la linea più breve tra sala e cucina”, l'equilibrio è miseramente franato trascinando con sé ogni residuo buon senso. Perso il senso critico che fa cogliere l'assurdo di alcune abitudini o la stramberia di taluni piatti, perso anche lo spirito di osservazione che permette di cogliere la vacuità di certe pose e l'insensato moltiplicarsi di manie compulsive nel carosello che accoglie e stringe il mondo della cucina. Proprio su questo si concentra la penna di Visintin quando non racconta esperienze gastronomiche nei locali meneghini. Non sempre memorabili, o forse sì: da ricordare per evitarle nei giorni a venire. Un inseguirsi affannoso di risotti e cotolette, pizze, hamburger e giù a venire, con penna sempre affilata. Il senso del ridicolo è scomparso dalla scena italiana (e non solo quella gastronomica), ma non smette di nutrire la sagacia di Visintin che regala pagine di assoluto godimento.

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Spariti osti e cuochi, sono comparsi gli chef, sacerdoti in giacca bianca e tatuaggi officianti al sacro rito del food, e non chiamatelo più cibo. Adorati come rockstar o eroi salvatori della patria, arruolati come commentatori politici, testimonial e volti immagine dei più svariati settori. Questo è quanto: è l'avvento di una nuova era. Insieme al proliferare di mangiatoie di scarsa qualità, locali molto molto glamour o street food standardizzati dove il buon cibo sembra non essere una priorità.

 

C'è di peggio

Il punto caldo non è questo, però. Questo è l'antefatto, la scenografia a tratti demenziale ma non priva di spunti divertenti. Il tema centrale su cui si concentra l'attenzione di Visintin è la connivenza, più o meno consapevole, che distende le sue spire tra salumi pregiati e spezie esotiche. L'allegra ambiguità tra chi scrive e chi promuove, il fare spallucce di fronte all'evidenza di pubblicità occulta, l'ottusa mansuetudine di fronte al pressappochismo che dilaga. La connivenza, il disincanto, i “ma questo magari non lo diciamo”, la convenienza e l'amicizia come parametri di giudizio, le ombre ignorate della malavita sulla Milano da mangiare (ma vale per ogni città). Le cene a invito e le recensioni a comando. Via via, fino a oscurare il senso stesso di alcune professioni. La disanima di Visintin segue le tracce delle figure che gravitano attorno al mondo del cibo e delle ristorazione. Gli uffici stampa, i critici, i blogger, gli invitati di mestiere, gli autori dei siti e i gestori dei ristoranti. Chi fa comunicazione e chi scrive, chi cerca di trasformare una passione in un hobby con qualche convenienza. Sia pure solo l'appartenenza a una élite che si concede il lusso di uno scatto con lo chef che chiama con finta distrazione per nome di battesimo.

Insomma tutto il variopinto universo del food, inclusi se stesso e la sua stramba professione, il più delle volte non compresa fino in fondo e portatrice di amare serate di difficile digestione (e non è un modo di dire). Ne traccia le regole inflessibili e impietose: non dare nell'occhio è la prima, che significa, per esempio, fingere di apprezzare ogni pietanza, non lasciare mai nulla nel piatto, accettare ogni insolenza o malfunzionamento senza battere ciglio. Non mostrare uggia o competenza alcuna. Essere contenti, ignari e soddisfatti, sempre. Un giorno dopo l'altro. Un ristorante dopo l'altro. Mandar giù senza dire niente sul momento e dicendo tutto, dopo. L'onestà come faro guida, senza mai cedere alla tentazione di uno scambio di battute con il cuoco di turno, senza mai confidenza alcuna con ristoratori o sommelier. Ignorando volutamente l'altro emisfero del proprio mondo lavorativo. C'è da dire che la sua posizione è quella, ormai in estinzione, di chi non fa i conti con il paradosso di un mestiere ad appannaggio di chi non si basa su quello per vivere. Perché, sia chiaro, quello del critico è un lavoro per ricchi. O di chi ha un regolare contratto giornalistico proprio per svolgere quel lavoro. Come dovrebbe essere.

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Cortesie tra colleghi

Da quando scrivo di cibo ho ricevuto solo due o tre minacce di querele e due o tre minacce fisiche” dice Visintin. E di cibo scrive da una ventina d'anni. Qualche ristoratore si è risentito per una critica non proprio positiva, ma non di questo libro; “gente che m ha detto: ti aspetto sotto casa oppure vieni qui, se hai il coraggio" o “digli che se torna e lo riconosco...”. Poca roba, in fondo. E gli altri? I colleghi? “C'è una buona compagnia di gente che mi strangolerebbe, ma non verrebbe mai a dirmelo” dice. Anche se non sono mancati salaci omaggi al suo lavoro e al suo personaggio. Enzo Vizzari, Camilla Baresani, Gianni Mura sono i colleghi che hanno speso qualche parola per lui, naturalmente corrisposti. Poco più che uno sfottò tra rivali sullo stesso campo da gioco, tutto considerato. Critiche molto più spuntate di quelle rivolte da VMV, che conclude: “La verità è che questo è un mondo di impuniti: mi odiano, ma non mi temono”. Ma non manca un omaggio al suo migliore nemico, quasi in chiusura di libro. Quando le pagine si fanno più sentimentali e intime. E la zona grigia sfuma in toni più crepuscolari.

Si ride e sorride, in questi brevi testi, con il disagio aleggiante che riporta alla mente una canzone di qualche anno fa: “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

 

Cuochi sull'orlo di una crisi di nervi | Valerio Massimo Visintin | Terre di Mezzo editore | 190 pagine | 12 euro

 

a cura di Antonella De Santis

foto: Carrol Cruz e Jacob Sadrak

 
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