Chiacchiere, crostoli, bugie, sfrappole, cenci, frappe, galani. Storia, origini e aneddoti di una ricetta secolare

18 Gen 2024, 07:58 | a cura di
Chiacchiere, crostoli, bugie, sfrappole, cenci, frappe, galani. Tutti discendono da un unico e inequivocabile progenitore, che risale al Rinascimento

Molti piatti della tradizione italiana possono contare su una storia che spesso non supera il secolo di vita e, a volte, non lo sfiora nemmeno (pensiamo per esempio al caso della carbonara). Per altri, più rari, si può arrivare all’Ottocento, ma spesso le modifiche delle ricette sono così sostanziali da renderli riconoscibili più dal nome che dalla preparazione vera e propria.

Molti nomi, una sola origine

Esistono però delle ricette che hanno resistito nel tempo mantenendo riferimenti precisi e diretti a piatti di epoca medievale o rinascimentale. Tra tutte, per qualche motivo ancora da indagare, una certa resistenza al passare del tempo lo hanno dimostrato alcuni dolci che oggi sono considerati vere e proprie specialità del panorama gastronomico italiano. A volte hanno diverse denominazioni in base alla regione di appartenenza, ma tradiscono un’evidente origine comune.

Un esempio è un tipico dolce di carnevale che viene chiamato in molti modi: chiacchiere, crostoli, bugie, sfrappole, cenci, frappe, galani, tutti discendenti da un unico e inequivocabile progenitore che risale al Rinascimento.

Il Panonto

La ricetta appare per la prima volta ne “La singolare dottrina” di Domenico Romoli detto il Panonto, pubblicata nel 1560. A parte la sua origine fiorentina, dell’autore si hanno scarse notizie, ma è giustamente considerato uno dei grandi gastronomi rinascimentali insieme a Bartolomeo Scappi e Cristoforo di Messisbugo. Il suo trattato, ristampato ancora nel Seicento, raccoglie sia ricette, che consigli alimentari e dietetici, secondo la moda del periodo.

Tra diversi mostaccioli, pizze dolci e biscotti, viene riportata la ricetta “Per far Frappe, overo palle di pasta di strufoli” in cui viene descritta la preparazione delle frittelle. Già allora era una specialità del periodo di carnevale e gli ingredienti erano semplicemente farina, uova e zucchero. Con questa pasta si spianava una sottile sfoglia a matterello che veniva incisa con tagli paralleli e fritta in abbondante strutto per essere servita cosparsa di miele.

La palla di pasta

Per quanto Romoli s'impegni per descrivere la forma finale delle frappe, non risulta molto chiaro cosa intendesse quando si riferisce alle “palle di pasta” richiamate nel titolo. Forse se ne accorse anche il suo contemporaneo e collega Bartolomeo Scappi che nella sua “Opera” del 1570 ripropone la ricetta “Per fare una pasta della quale se ne potrà fare palle & diversi altri lavorieri”. La ricetta è praticamente identica, con la sola aggiunta dell'acqua di rose, sale e una spiegazione più comprensibile.

Il procedimento descritto da Scappi

Il procedimento consiste nel distendere un sottile disco di pasta di circa 30 centimetri di diametro e inciderlo con tagli paralleli a distanza di un dito circa, lasciando però i margini intatti. Con un bastoncino si passa attraverso i tagli prendendo una fettuccia sì e una no e, tenendo la pasta sollevata con questo legnetto, si immerge in un profondo paiolo di strutto bollente, in modo che le strisce di pasta alternate rimangano distanti tra loro durante la cottura. Il risultato era una grande palla vuota al centro che veniva cosparsa di miele o zucchero prima di essere addentata. Questa ingombrante frittella doveva essere particolarmente scomoda da maneggiare, ma l’effetto scenico era assicurato.

A parte l’elaborata forma, le frappe probabilmente avevano anche una consistenza leggermente diversa da quelle attuali che risultano più friabili grazie all’aggiunta di burro all’interno dell’impasto. Per fare un paragone, doveva risultare croccante più o meno come le frittelle di tagliatelle che si fanno ancora oggi in Emilia per carnevale.

Le Flappe del Settecento

Il dolce viene registrato anche nel tardo Settecento da Francesco Leonardi nel suo monumentale “L’Apicio moderno” con il nome di Flappe. L’impasto si arricchisce di burro e vino dando vita alla ricetta che si utilizza ancora oggi: “Impastate ott’oncie di farina (230 grammi circa), con due uova, un poco di butirro, un poco di sale, ed un poco di vino bianco, che la pasta sia soda una cosa giusta”. In questo caso Leonardi consiglia di tagliare la pasta in fettucce larghe due dita e annodarle a più riprese prima di friggerle nello strutto e cospargerle di zucchero, oppure di una leggera glassa dolce a base di acqua, zucchero e chiara d’uovo, il cosiddetto zucchero lissè.

Il grasso e il magro

Nei primi dell’Ottocento le Flappe vengono riportate anche ne “La nuova cucina economica” il dizionario gastronomico composto da Vincenzo Agnoletti. Oltre alle normali Flappe già viste, a cui si aggiunge anche la scorza di limone, ne viene proposta anche una versione “di magro” piuttosto inusuale, considerato che erano dolci tipici di carnevale, il periodo “di grasso” per eccellenza. La ricetta varia sostanzialmente per l’utilizzo dei soli albumi e dell’olio impiegato nell’impasto al posto del burro e per la frittura.

Tanti nomi, una sola specialità

Ogni autore a seguire fornisce la propria versione della specialità di carnevale, aggiustando le dosi e sostituendo di tanto in tanto alcuni ingredienti, ma soprattutto variandone il nome. È così che appaiono le Frittelle fiamminghe de “La cucina facile” del 1844, in cui viene introdotta l’acquavite - presente ancora oggi in alcune regioni- riprese anche da “Il cuoco milanese” a metà Ottocento come Frittelle alla fiamminga. Nello stesso periodo Angelo Dubini pubblica i Nastrini delle monache o Gonfioni, seguiti dalle Frappe (intriconi) de “La cuciniera maestra” del 1884.

Pellegrino Artusi (1891) e “Il cucchiaio d’argento” (1950) propendono invece per il toscano Cenci, mentre Ada Boni ne “Il talismano della felicità” del 1927 utilizza un ecumenico Frittelline di carnevale per dichiarare solo nel testo che a Roma vengono comunemente chiamate Frappe. Infine Anna Gosetti della Salda nel suo “Le ricette regionali italiane” ne riporta quattro diverse versioni secondo la divisione regionale: le Chiacchere o lattughe in Lombardia, le Sfrappole in Emilia, i Cenci in Toscana e infine i Crostoli in Trentino, più golosi dei precedenti a giudicare dalle quantità di burro e zucchero utilizzate.

Mezzo millennio di storia per le frappe

Nel corso di una storia che sfiora il mezzo millennio, è normale che una ricetta subisca influenze diverse e venga modificata in base al territorio in cui si radica. Con lo stesso meccanismo per cui una lingua è mutevole e instabile nel tempo, la cucina italiana si è trasformata durante i secoli per dare vita a una delle culture culinarie più interessanti e variegate del mondo. Risulta però difficile spiegare cosa decreti la fortuna di una ricetta rispetto ad altre che sono state dimenticate dopo secoli di vita. Nel caso delle frappe rinascimentali probabilmente la loro sopravvivenza e la capillare diffusione sono dovuti al successo di una ricetta semplice, ma ben identificabile nel panorama delle frittelle dolci, in quanto esempio quasi unico di una base tirata a sfoglia. Un esempio perfetto di come un patrimonio comune possa essere declinato all'interno delle diverse cucine regionali e rimanga ancora oggi una tradizione carnevalesca da tramandare.

 

 

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