Il caldo di un’estate iniziata ormai da mesi, la campagna intorno a Montalcino con le sue vigne in attesa che le piogge possano ridar sollievo ad un’annata che si preannuncia come una delle più siccitose mai affrontate. A parlare di Montalcino e del concetto di sostenibilità, ben più ampio di quello che ci si aspetterebbe, c’è Enrico Viglierchio, Direttore Generale di Banfi, grande azienda ilcinese nata nel 1978 grazie alla famiglia Mariani e oggi una delle più importanti del comprensorio.
Le tematiche sulla sostenibilità sono ormai sempre più al centro di dibattiti, spesso accesi nel mondo del vino, produttori compresi. In cosa si traduce per un’azienda con numeri importanti come Banfi, con produzioni anche al di fuori di Montalcino, questo concetto?
Il nostro è un percorso iniziato nel 2015 che ha avuto il primo risultato tangibile nel 2016 con la pubblicazione del primo bilancio di sostenibilità. Un documento che viene redatto secondo una procedura internazionale seguendo i principi del GRI attraverso il controllo di un revisore esterno: di fatto il bilancio di sostenibilità affianca il Bilancio economico e finanziario di un’azienda, con la possibilità e l’obiettivo di unificarli in un documento unico.
In che cosa consiste nello specifico?
Consiste nell’analizzare ogni area aziendale valutandone lo stato dell’arte per quanto riguarda i vari aspetti che la caratterizzano: dalla gestione delle risorse umane, ambientali, fino, appunto, a quelle economiche, analizzando i tre esercizi precedenti, racchiudendo al suo interno tutte quelle attività e tutti quei progetti che rientrano in un concetto di sostenibilità. Progetti che possono andare dalla riduzione di infortuni, al recupero e ricircolo dell’acqua, all’abbattimento e riduzione nell’uso di prodotti fitosanitari, oppure progetti di sostenibilità territoriale, cioè l’investimento dell’azienda a supporto del territorio.
Cosa intende per “investimento dell’azienda a supporto del territorio”?
È un vero e proprio bilancio che si compone delle risorse da cui attinge l’azienda e di quante ne “ribalta” sul territorio, sotto forma di manodopera del luogo rispetto a quella al di fuori di esso o investimenti in attività culturali e recupero ambientale. Quindi un concetto di sostenibilità più ampio rispetto a quello che si potrebbe immaginare, più vicino al significato francese piuttosto che quello italiano.
Sul tema sostenibilità, qual è la differenza tra Italia e Francia?
In Italia, anche da un punto di vista comunicativo, ne vediamo principalmente l’aspetto che è quello legato alla gestione agronomica: per il 90% delle persone la sostenibilità di un’azienda vitivinicola si riduce alla gestione della vigna e ai suoi trattamenti. I francesi non usano il termine sostenibilità, che di per sé ha un’accezione tendenzialmente negativa, ma usano il concetto di durabilità.
Cosa presuppone il concetto di durabilità?
Un sistema che ha tutti i presupposti per durare nel tempo in modo virtuoso anche nell’aspetto economico, racchiudendo in esso l’interazione del processo aziendale col territorio, inteso sia come risorse ambientali e umane. Un’azienda virtuosa e in grado di durare nel tempo deve essere autosufficiente, ovviamente basandosi su principi etici solidi ma, qualora diventasse inefficiente dal punto di vista economico, si entrerebbe in una situazione di conflitto insanabile che la farebbe entrare in un circolo vizioso di sovvenzionamenti e aiuti esterni. In sostanza, un bilancio che si fonda su principi etici ma economicamente sostenibili: questo richiede il GRI.
Nello specifico del capitolo ambientale?
Stiamo portando avanti una serie di progetti, sia per quanto riguarda il ciclo in cantina, sia per quanto riguarda la parte agricola. In cantina c’è un progetto di ottimizzazione delle risorse energetiche, volto ad abbattere sprechi e aumentare il riutilizzo di determinate risorse, tra cui l’acqua.
In che consiste esattamente il riutilizzo dell'acqua?
La produzione di vino utilizza tanta acqua, consideriamo che per ogni bottiglia prodotta se ne consuma 10 volte il contenuto per lavare i serbatoi, le macchine, le ceste per la raccolta, insomma tutta la filiera utilizza molta, troppa acqua. Parte del prezioso liquido quindi può essere riciclato, rendendolo addirittura potabile, anche se la normativa attualmente ne vieta l’utilizzo alimentare ma ne permette solo quello industriale: una normativa controversa visto che è consentito dissalare l’acqua del mare per renderla potabile ma non è possibile riutilizzare l’acqua di cantina. Questo progetto si concluderà nel 2017 e porterà a recuperare e a ridurre l’approvvigionamento da pozzo e/o acquedotto di un 30-35%.
Altri progetti?
Oltre all’aspetto idrico stiamo lavorando anche sulla riduzione dei consumi elettrici, trovando partnership con fornitori che sfruttano principalmente energie da fonti alternative. Il nostro percorso prevede in primis di abbattere i consumi, poi di investire internamente in fonti energetiche come il solare, che per me, ad oggi, presenta ancora dei buchi neri, soprattutto per quanto riguarda lo smaltimento dei pannelli.
Da un punto di vista agricolo, l’acqua sarà uno dei punti critici per il futuro anche in relazione alle annate a cui stiamo assistendo, passando da stagioni piovosissime a periodi di estrema siccità. Come affrontate questo problema?
Da sempre lavoriamo molto con l’irrigazione, un passo decisivo si è fatto tramite un sistema a rateo variabile: lungo i filari, e in alcuni casi nelle nostre vigne si tratta di centinaia di metri, le condizioni del terreno cambiano molto e con esso cambia anche la necessità di approvvigionamento idrico della vite. Si è studiato un sistema, che entra in funzione dopo il terzo anno di vita della pianta, in grado di dosare l’irrigazione secondo 3 livelli diversi, attraverso 3 tubi. Da un lato si riduce l’uso dell’acqua, dall’altro migliora nettamente la qualità dell’uva.
Anche le forme di allevamento incidono nella necessità d’acqua della pianta.
Sì, infatti da una decina di anni abbiamo introdotto una specie di alberello bidimensionale, una specie di “candelabro”, che ha dato ottimi risultati sul sangiovese e, più in generale, su varietà a grappolo generoso. È una forma di allevamento che lavora molto bene sui terreni molto magri/argillosi, pena in caso contrario l’esplosione della vegetazione, in quanto non c’è alcuna piegatura del cordone: questo fa sì che la pianta non abbia alcuna strozzatura dei vasi, quindi potenzialmente una longevità maggiore. Si ha una produzione limitata come numero di grappoli ma di ottima qualità, la pianta ha al tempo stesso una minor necessità di irrigazione e risulta facilmente lavorabile dal punto di vista meccanico, avendo una conformazione che consente di inserirla a fianco di altre forme di allevamento come il cordone speronato. Altro aspetto agronomico importante, rispetto al cordone speronato, è la minor incidenza di patologie del legno, come il mal dell’esca, e la facilità di rinnovamento della pianta che la rende sotto questo aspetto molto più simile al guyot da questo punto di vista.
Abbiamo parlato di risparmio d’acqua e del suo utilizzo: da fine ottobre 2015 è stata approvata la modifica del disciplinare ed è ora consentita l’irrigazione di soccorso, pratica che in casa Banfi, come spiegato, è stata sempre un cardine. Per alcuni una pratica di forzatura, per altri un modo per venire incontro a Banfi o a chi ha vigne in terreni poco vocati.
C’è un disciplinare che parla chiaro e il disciplinare è fatto dai produttori. Noi abbiamo irrigato da sempre ma a chi ci criticava ho sempre risposto: le viti noi non le facciamo morire. Con un disciplinare di produzione che pone un tetto massimo di 80 quintali a ettaro, la forzatura a tutti gli effetti non esiste, nella viticoltura moderna è solo un aiuto alle vigne nei periodi di stress idrico come questo.
Perché si è sentita l'esigenza di cambiare?
Si è sentita questa necessità dopo che molte vigne addirittura, dopo il 2012, erano morte per la siccità, anche in zone vocatissime e ad altitudini elevate. L’irrigazione si usa sugli impianti nuovi e in condizioni estreme, anche perché oggi la ricerca della qualità ci spinge a non eccedere col suo utilizzo. Certo è che oltre un certo livello di stress idrico non penso sia saggio mettere a repentaglio un intero cru o una vigna o parte di essa per un concetto che appare oggi superato: mio nonno usava l’irrigazione come pratica di forzatura ma lui se non produceva almeno 300 quintali a ettaro non era contento.
Come è andato il 2017?
È l’annata più siccitosa che abbiamo visto, simile alla 2012 e molto più asciutta della 2003 che è stata invece un’annata calda: da gennaio abbiamo avuto 180mm di precipitazioni, nella 2012 ne abbiamo avuto 250, considerando che Montalcino è una regione che varia dai 600 ai 700 mm. Per assurdo meglio la siccità del caldo, perché in annate calde come la 2003, ricca di acqua fino a luglio poi caldissima, si sono verificati blocchi totali di maturazione e fenomeni di disidratazione. Infatti molti Brunello 2003 sono vini con attacchi dolci al palato e chiusure amare legate a una non maturazione tannica. Hanno colori intensi ma non vivi, brillanti, dettati dalla pura e semplice concentrazione delle uve disidratate.
Non solo vino, una produzione quella di Banfi, che abbraccia più culture: dagli ulivi, ai frutteti, al grano. Molte di queste in regime biologico.
Ovviamente il vino, il Brunello in particolare, è il nostro traino ma penso che per il territorio bisogna effettuare un salto culturale, passando da distretto monoprodotto a distretto agroalimentare. Se si vuole mantenere la propria unicità bisognerebbe evolvere verso un sistema più complesso che è molto più difficilmente copiabile di qualunque prodotto singolo. Abbiamo per anni sottovalutato paesi come l’Australia, il Cile e altre zone emergenti pensando che non sarebbero mai stati in grado di produrre vini all’altezza dei nostri. E se domani facessero un Sangiovese all’altezza dei nostri Brunello?
Ipotizza una denominazione che comprenda più prodotti sotto un'unica DOP?
L’unicità del nostro territorio passa attraverso una serie di tasselli dove ovviamente il Brunello è il protagonista, un intreccio e una complessità che sarebbero impossibili creare altrove: dall’olio, alla pasta, ai ceci, all’orzo con l’obiettivo di mettere, perché no, sotto un unico marchio territoriale quella che è l’espressione agricola di Montalcino. In fondo è il concetto europeo delle DOP, un ombrello molto più ampio e protettivo delle DOC e delle DOCG. Più prodotti saremo in grado di legare al Brunello e più lo proteggeremo nel prossimo futuro.
Un traino, quello del Brunello, che ha portato, insieme a una serie di annate favorevoli, a un vero e proprio boom del “brand” vinicolo.
Penso sia legato alle annate ma soprattutto all’apertura di nuovi mercati che, anche in piccoli quantitativi totali, hanno creato maggior interesse. Teniamo presente che quella del Brunello tutto sommato nei numeri è una piccola denominazione, da massimo 9 milioni di bottiglie annue. La domanda crescente di questi nuovi mercati è andata ad allentare la pressione su quelli che sono i mercati storici del Brunello: oltre all’Italia, gli USA, la Germania e la Svizzera. Oltretutto la concomitanza di ottime annate, ma scarsamente produttive, ha esasperato la domanda, facendo innalzare i prezzi delle uve a livelli importanti, anche a 4-5 euro al chilogrammo. D’altronde la denominazione per dimensione è quella che è e non ha più margine di espansione, se si vuole del Brunello e dell’uva da Brunello la si deve pagare.
A questo punto possiamo aggiungere i lusinghieri giudizi della critica che pare aver intrapreso una vera e propria gara nel pubblicare prima di tutti il proprio giudizio sull’ultima annata in uscita, a nostro modo di vedere a discapito di quella che è la vera anteprima, ovvero Benvenuto Brunello. Al tempo stesso convive il paradosso delle guide (come anche Vini d’Italia del Gambero Rosso) che alla presentazione a ottobre potrebbero premiare Brunello già finiti. Come si potrebbero rendere attuali i giudizi?
Non a caso Bordeaux organizza l’en primeur. Probabilmente la direzione è quella e il disciplinare del Brunello in questo è chiarissimo ponendo come limite minimo i 2 anni di affinamento in legno: perché non fare una degustazione alla fine di questo periodo? Consideriamo che questa è la fase più delicata del Brunello, decisiva direi, quella in cui si decidono le sorti delle botti e la loro destinazione. Magari partendo da questo step di anteprima si potrebbe costruire per la critica giornalistica un percorso valutativo itinerante, indispensabile per un vino del genere: ok la vigna e l’aspetto agronomico ma non si può trascurare la cantina per un vino che vi sosta per quasi 5 anni.
Gli assaggi della annate 2015 e 2016
Dalle parole di Viglierchio, la chiacchierata non potrebbe concludersi diversamente che in cantina, assaggiando le annate 2015 e 2016 di singoli cru di Brunello, un triangolo di vigne nell’immensa proprietà aziendale.
La 2016 mostra quel mix di freschezza acida e potenza: se per la vigna Biadaioli i tratti di acidità e distensione e un accattivante floreale di viola rendono il vino paradossalmente già leggibile, nella vigna Santa Costanza sono tratti introversi e scuri a caratterizzarlo, insieme a un tannino più deciso e un alcol più presente. Sempre introverso ma con sensazioni balsamiche più evidenti la vigna Mandrielle “sopra strada”, dalla bocca ampia e succosa, segnata da una lieve asciugatura giovanile.
Per la 2015 l’annata calda si esprime in colori più intensi e cenni fruttati più evidenti: Biadaioli cambia faccia rispetto alla 2016, mantenendo la finezza che lo contraddistingue ma in un contesto più dolce nel frutto e nella componente speziata. Sempre più intenso Santa Costanza, balsamico e dal frutto scuro incisivo e nitido, con la bocca di materia quasi masticabile. Mandrielle “sopra strada” ha invece screziature verdi e maggior chiusura olfattiva, un sorso meno dinamico e coinvolgente. Una strada quella delle singole microvinificazioni che Banfi ha intrapreso nel 2007 e che potrebbe trovare un compimento che vada oltre lo storico Poggio alle Mura.
a cura di Alessio Pietrobattista