La Fondazione Gambero Rosso, creata con lo scopo di dare attenzione e risalto ai temi di ordine sociale e della ricerca, porta avanti con dedizione questa rubrica dedicata alle donne, non tanto perché crediamo nelle quote rosa ma perché è fondamentale parlare e sensibilizzare sulla parità di genere. Ed è altrettanto fondamentale farci portavoce di donne che hanno raggiunto importanti obiettivi nel proprio settore. Qui l'intervista a Chiara Pavan, “cheffa” di Venissa a Mazzorbo.
Intervista a Chiara Pavan
Nella sua esperienza lavorativa quali sono stati gli ostacoli che ha dovuto affrontare in quanto donna?
La difficoltà maggiore per una donna è conciliare la vita familiare con quella lavorativa. Senza una famiglia alle spalle (quindi senza avere un ristorante di famiglia) è difficile decidere di fermarsi e fare figli. Per me è stato un tema complicato negli anni passati e in parte lo è tutt’ora, che non ho figli. La vita da chef è difficilmente conciliabile con la maternità.
Il secondo ostacolo è stato guidare la brigata. Le modalità che mi erano state insegnate sono quasi “militari” (come l’idea stessa di brigata presuppone). Riproporre quel tipo di gestione per me è stato molto complicato. La mia educazione e gli standard che stanno alla base dell’idea di donna nella società non mi aveva preparata alla gestione (storicamente è strutturalmente molto maschile) di una brigata con determinate gerarchie. Adeguarmi prima a quelle dinamiche e poi capire che può esserci un altro modo per essere “chef” è stato complicato. Inoltre ottenere il rispetto da parte di componenti (spesso giovani) maschili della brigata è stato a volte difficile.
Nel suo attuale ruolo quali leve gestionali sta utilizzando per facilitare il mondo femminile?
Sto facendo assumere più donne possibile in cucina, anche se le candidature che mi arrivano sono davvero poche rispetto a quelle maschili.
Quali proposte o modifiche proporrebbe alle autorità di governo per accelerare il raggiungimento della parità?
Credo che il cambiamento passi da una riforma del mondo stesso della ristorazione di cui si è finalmente cominciato a parlare. Il problema maggiore sono le infinite ore di lavoro che siamo costrettə ad affrontare. La ragione per la quale le aziende ristorative sono costrette a far lavorare i dipendenti così tanto è il costo del lavoro non adeguato a un lavoro di artigianato come quello della cucina. Penso che una revisione di questo aspetto con una conseguente riduzione delle ore lavorative possa essere un primo buon incentivo per invogliare le donne a intraprendere questa carriera o comunque a non lasciarla dopo qualche anno.
E poi ci sarebbe un discorso più ampio sugli aiuti statali per la maternità delle imprenditrici (che porterebbe più donne a intraprendere il lavoro di cheffe patron anche senza una famiglia alle spalle) o politiche più favorevoli alla maternità delle donne single, che in Italia è molto difficile.
Quali modalità e quali formule suggerisce per sensibilizzare e rendere consapevole il mondo maschile di questo gap? Un gap che, peraltro, ha conseguenze anche sul Pil.
Credo che in questi anni si stia già facendo molto: premi alle donne, alta visibilità delle cheffe, che hanno l’indiscutibile merito di accendere i riflettori sul lavoro di noi donne. Sicuramente parlerei del problema di genere nelle scuole di cucina e nelle scuole alberghiere. Lo farei diventare un argomento di studio e analisi esattamente come dovrebbe essere oggi quello dell’impatto del cibo sul cambiamento climatico! Credo che l’educazione sia la base di tutto.
Ci racconti un aneddoto di una delle sue esperienze sul tema.
Non ho un vero e proprio aneddoto. Sicuramente posso dire che negli anni ho imparato a non sentirmi in colpa quando comando e quando mi arrabbio. Per me è stato un grande traguardo, non scontato in una società dove dalla donna ci si aspetta che sia dolce, carina e materna.
illustrazione di Ilenia Tiberti