Il veganismo sta già morendo? La catena di Lewis Hamilton e Leonardo Di Caprio chiude alcuni negozi

7 Feb 2024, 17:57 | a cura di
Nel Regno Unito, la proposta plant-based è diventata meno popolare e alcuni fast food vegani iniziano a chiudere. Le ragioni dietro il calo dei consumi non sono tuttavia solo di carattere economico

Il mondo corre e con esso le sue trasformazioni, semplicemente inarrestabili nel loro moto perpetuo. Eppure può capitare che alcune transizioni in atto, ritenute magari in via di consolidamento, vengano a sorpresa, ad arenarsi. È quello che rischia di accadere al veganismo. Una prospettiva che inizia a trovare i primi riscontri nel Regno Unito, in cui si registrano rincari generali che influenzano il consumo e determinano chiusure, ma che presto potrebbe coinvolgere altri paesi assumendo così le dimensioni di un fenomeno dalla portata globale.

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Le chiusure di Lewis Hamilton e altri investitori famosi

I dati, che meritano tutta la nostra attenzione, suggeriscono che il veganismo stia morendo; quantomeno che abbia raggiunto il suo punto di saturazione. La dieta vegana fatica a ‘stabilizzarsi’ e le ultime misure messe in campo dagli investitori sembrano testimoniare il fallimento della proposta in terra britannica. Lewis Hamilton, nuovo acquisto della scuderia Ferrari, e il socio Leonardo Di Caprio hanno già chiuso metà delle sedi di Neat Burger a Londra nel mese di dicembre. La loro catena di cibo vegano riportava già alla fine del 2022 delle perdite del 140%. Sempre nell’orbita negativa, Heather Mills, ex moglie di Paul McCartney, a fine 2023 ha dichiarato che la sua azienda VBites era entrata in amministrazione controllata a causa del calo dei consumi. E nel Regno Unito  le proiezioni generali non sono di certo più confortanti: secondo le testate anglosassoni questo ramo della ristorazione sta perdendo popolarità e si attendono numerose chiusure nell’arco di due anni. Lo stesso trend ha investito Pret-A-Manger: tutti i locali Veggie Pret (ad eccezione di due) sono stati soppressi. Attività di successo, incensate dal pubblico, come per esempio VGN Boulevard a Stourbridge, hanno dovuto soccombere alla pressione finanziaria post pandemica che non ha consentito loro di arrivare al profitto atteso. Persino Beyond Meat, uno dei principali fornitori di alimenti plant-based per colossi quali McDonald’s, Starbucks e Pizza Hut, ha visto frenare le proprie entrate: dai 461 milioni di dollari del 2021 ai 330 del 2023. Con il risultato che adesso le azioni dell’impresa valgono molto di meno. Tale ‘crollo’ ha costretto alcuni indirizzi (caso noto quello Nomas Gastrobar) a inserire addirittura pasti a base di carne per poter rimanere in piedi.

Cosa sta accadendo?

Con questo eclatante calo dei consumi, proposte a base di proteine vegetali potrebbero non costituire più un’alternativa: il rischio che articoli come il burger McPlant siano esclusi dalle catene di fast food più battute non è poi tanto remoto. Ma quali sono le ragioni alla base della parabola discendente? Innanzitutto, l’inflazione ha spinto i consumatori a scegliere cibi meno costosi, solitamente latticini e alcuni tipi di carne. Al Daily Mail la giornalista Helen Dewdney ha sottolineato come l’aumento del costo della vita spinga le persone a ridurre gli acquisti in generale; nel caso dei vegani, a tagliare fuori dall’alimentazione di tutti i giorni preparati “a base di carne finta”. Per di più, riuscire quotidianamente a garantire il giusto apporto proteico senza ricorrere a proteine animali non è affatto semplice. Il vegano si scontra quindi puntualmente con queste difficoltà. Per l’esperta, alcuni rinunciano al veganismo dopo aver realizzato che “trovare alternative e avere comunque una dieta variata (in linea con tale subcultura) […]” è molto più complicato da rispettare di quanto non si pensasse inizialmente. A questo si aggiunge la diffusa percezione che in diversi casi le proposte vegane siano grossomodo dei surrogati della carne: proteine vegetali “eccessivamente lavorate e malsane”. Una conclusione in parte supportata da recenti studi polacchi secondo cui i pasti fast food a base vegetale di Burger King e altre aziende (fra cui Pizza Express) contengono non solo meno proteine e sodio, ma altresì livelli più elevati di zuccheri e carboidrati rispetto agli equivalenti non a base vegetale. Un quadro simile rende alquanto complesso per le società del settore e per le insegne che offrono solo preparazioni vegane trovare nuovi ‘seguaci’.

Il futuro della proposta vegan

Questo cambio di marcia potrebbe non verificarsi solo nel Regno Unito, sembra infatti una tendenza globale. Molti, oramai, sensibilizzati dall’impatto che le scelte alimentari sono in grado di esercitare tanto sulla salute quanto sull’ambiente, hanno intenzione di ridurre il consumo di carne e sposare soluzioni differenti, non solo di tipo vegano. Il veganismo part-time potrebbe così avere la meglio sulle vecchie abitudini. Che sia flexitarianesimo o meno, diventa comune la voglia di valorizzare il vegetale, senza per forza relegarlo ad alternativa, sostituto o contorno. Difatti i consumatori più consapevoli, più che prediligere una specifica proteina, sembrano piuttosto orientati alla ricerca di uno stile nutrizionale variegato che salvaguardi il benessere proprio e del pianeta. Alla ristorazione, per sopravvivere, non che resta che intercettare questo pluralismo. E perché no svolgere un ruolo encomiabile nell’educare i consumatori a un’alimentazione sana e ‘corretta’. Un compito che in una società ideale dovrebbe essere svolto da qualcun altro.

 

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